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23 aprile 1945

Lauro Messori 1991


Gli ultimi giorni di guerra

In quel mese di aprile ci fu un susseguirsi di avvenimenti, alcuni dei quali rimasero impressi nella mia mente come se fossero accaduti ieri. Alcuni fatti però sono rimasti scollati l’uno dall’altro, come se le pagine della mia memoria fossero state strappate da un quaderno di diario, rimescolate disordinatamente e qualcuna di esse fosse volata via o fosse stata sgualcita dal tempo, sì da essere resa poco leggibile. Tanto che talvolta la successione dei fatti di quei giorni appare confusa, e mi resta il dubbio, per certi avvenimenti, se di essi io ne abbia un ricordo vissuto in prima persona o ne abbia sentito un racconto dagli altri.


Quella guerra che durava ormai da tanto tempo, la metà della vita di un ragazzo di dieci anni, sembrava finalmente volgere al termine, ma nessuno osava sperare che potesse veramente finire. Ci si era talmente assuefatti a convivere con la paura, con il disagio, con le privazioni, che tutto ciò era diventato normale. Gli aerei da guerra che passavano in cielo con un rombo cupo; i bombardamenti a Reggio, di cui si udiva il fragore delle bombe che scoppiavano, fin da casa nostra. Qualche bomba caduta, sembrava quasi per sbaglio, nei dintorni. Ricordo una bomba caduta al Ponte Nuovo, che aveva scavato un cratere grande come una casa. Il coprifuoco, i messaggi speciali della “Voce di Londra” che ascoltavamo come dei cospiratori dalla radio, pronti a nasconderla nell’armadio al minimo sospetto di poter ricevere una visita dai tedeschi o dai fascisti. L’obbligo di tenere le finestre chiuse di notte per evitare il trapelare di qualsiasi luce all’esterno. C’era un piccolo aereo che passava tutte le notti nel cielo buio delle nostre campagne e che pare che, ogni qualvolta vedeva sotto di sé una luce, ci lasciasse cadere una bomba. Si chiamava Pippo. E poi c’era il problema dei tedeschi, dei fascisti, dei partigiani.. Ogni tanto si veniva a sapere che qualcuno della nostra gente era stato fucilato. Sembrava diventata una cosa normale tutto ciò che non ha nessuna logica, perché le guerre non hanno mai una logica, nemmeno quelle che si fanno oggi e che vengono chiamate “guerre preventive” o guerre per portare la democrazia. Come si fa a portare la democrazia con le bombe?


Ma non voglio perdere il filo dei miei ricordi di quell’aprile; già mi è difficile riordinare quelle pagine scompaginate della mia memoria…. Da giorni ormai passavano, attraverso i campi, tedeschi in cammino verso nord, forse verso quelle Alpi al di là delle quali doveva esserci la loro Patria. Si fermavano a chiedere un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane. Non sembravano più dei nemici, erano dei poveri ragazzi in fuga, che erano stati mandati per ammazzare o per farsi ammazzare. Passavano colonne di camion e carri armati lungo la Via Tresinaro o lungo la strada per Carpi.


C’era tanto sole in quell’aprile, le strade bianche ridotte ad una coltre di polvere; i semi degli olmi volavano dappertutto, si appiccicavano alle ragnatele del fienile, entravano in casa dalle finestre aperte e s’infilavano dietro i mobili.


I due sconosciuti

Un giorno capitarono due uomini a casa nostra; non so bene come avvenne, so solo che rimasero un giorno intero chiusi in una stanza e davanti alla porta stava lo zio Rino con un forcone del fienile. Diceva che quei due non si azzardassero ad uscire. Pare che fossero giunti alla Casa Vecchia ed avessero chiesto in giro se qualcuno sapeva indirizzarli al comando dei partigiani. Mio cugino Aldo che aveva 5 o 6 anni più di me, non gli sembrava vero di sentirsi importante e rendersi utile e disse di sì, che lui lo sapeva. Quando intervenne uno dei grandi era troppo tardi ed immediatamente nella famiglia si sparse il terrore. Chi li conosceva quelli? E se fossero state due spie dei fascisti? Sarebbe stata una tragedia. Ci avremmo rimesso la pelle tutti quanti. Bum, bum, bum.… compreso il comando dei partigiani. Ci fu un consiglio di famiglia straordinario, che portò alla decisione di invitare, con non so quale pretesto, i due signori in quella stanza, davanti alla quale si piazzò lo zio Rino con quel forcone che serviva per caricare il fieno sui carri. Grazie a Dio quella situazione si risolse prima di sera. Ci furono dei contatti, vennero assunte delle informazioni e si accertò che effettivamente i due sconosciuti erano dei partigiani veri e furono liberati con tante scuse. I grandi comunque dovevano aver dato una gran strigliata di capo a mio cugino, la cui incoscienza ed imprudenza aveva provocato tutto quel pasticcio.


La fossa anticarro

I nostri campi erano stati attraversati dalla fossa anticarro, che si estendeva de Est a Ovest. Era stata fatta scavare dai tedeschi, con l’impiego di tutti gli uomini in età di lavoro, disponibili sul territorio. Si diceva che avrebbe dovuto servire ad arrestare l’avanzata degli americani, ma c’erano delle grosse perplessità sulla sua efficacia. Anche perché le varie strade che il tracciato della fossa intersecava, non furono mai tagliate o interrotte. Dicevano che i tedeschi le avrebbero fatte saltare, non appena tutti i loro convogli fossero passati a Nord; ma questo non avvenne mai.


Quell’opera gigantesca tutta scavata a braccia, con vanghe, badili e carriole, era durata tanti mesi, forse un anno e mezzo. Ricordo che una mattina dell’inverno appena trascorso, il cielo azzurro ed il sole appena spuntato all’orizzonte, sentii il rombo di un aereo in picchiata. Saltai giù dal letto e mi affaccia alla finestra e vidi l’aereo sorvolare a bassa quota la fossa anticarro, ad un centinaio di metri a sud della casa, sparando raffiche di mitragliatrice. Ed io vedevo i proiettili che dall’aereo venivano sparati sulla fossa e mi ero buttato sul pavimento. Ora non so se avevo avuto davvero paura e non so nemmeno se avevo visto realmente i proiettili sfrecciare nel cielo. E’ che, in una di quelle pagine sgualcite dei miei ricordi, appaiono come delle traiettorie incandescenti, come delle braci che dall’aereo sfrecciavano sul terreno coperto di neve gelata, lungo il tracciato della fossa. Dieci minuti dopo, scomparso l’aereo, io correvo in mezzo alla neve lungo la fossa, a raccogliere i bossoli vuoti, scaricati dall’aereo. Non sapevo bene cosa ne avrei fatto. Ci fu un ragazzo dei vicini che aveva trovato un bossolo non esploso e giocandoci ci aveva perso una mano.


Intanto la ritirata dei tedeschi sembrava completata perché da alcune ore non passavano né soldati a piedi né automezzi. La fossa era rimasta incompiuta, con tutte le strade rimaste intatte. Ci si aspettava da un momento all’altro che arrivassero gli alleati e si temeva che si potesse scatenare una battaglia tra questi e le retrovie dei tedeschi in fuga. Ma non si vedeva nessun segnale che facesse presagire tale battaglia.


Il rifugio

Dietro la casa, ad una cinquantina di metri a Nord, e quindi dalla parte opposta a quella della fossa, nell’autunno dell’anno precedente avevamo scavato un rifugio antiaereo. Già, perché anch’io avevo dato il mio contributo, spalando terra dello scavo, con il badile. Si trattava di una specie di trincea profonda circa due metri larga due e lunga 4 o 5. Su questo scavo erano stati posti dei tronchi di olmo e fascine poggianti con le due estremità ai bordi, e poi ricoperti di terra, lasciando due aperture alle estremità dello scavo, attraverso le quali si poteva scendere con dei gradini nella terra. Avrebbe dovuto essere il nostro rifugio in caso di bombardamenti o battaglie. Era riconoscibile soltanto per quel cumulo di terra creato sul tetto di tronchi e fascine; però era completamente mimetizzato per effetto dell’erba ricresciuta sul terreno di copertura. Per di più era nascosto sotto un grande melo e due vecchi ciliegi che in aprile stavano rimettendo le foglie. Non l’avevamo mai utilizzato, ma sembrava che nella notte di quel 23 aprile sarebbe giunto il momento di farne uso.


La liberazione

Era stata una bellissima giornata di sole di piena primavera: Il vento aveva fatto danzare come farfalle nell’aria elettrizzata i semi degli olmi ed i piumini dei pioppi che svolazzavano di qua e di là; le rondini avevano solcato il cielo indaffarate ai nuovi nidi. Poi all’ora del crepuscolo il vento cessò, gli uccelli smisero di cinguettare e all’improvviso regnò la quiete in un silenzio assoluto. Nella notte che stava giungendo poteva accadere di tutto; una battaglia finale tra gli alleati che avanzavano ed i tedeschi in fuga, bombardamenti…. Io ero molto eccitato all’idea di trascorrere la notte nel rifugio; era già stato preparato quanto poteva esserci utile, dalle candele a qualche coperta di lana. All’ora del tramonto mia madre stava impastando e friggendo del gnocco: Quando ormai tutto era quasi pronto e gli ultimi pezzi di gnocco erano stati messi in padella, passò un vicino in bicicletta per la strada. La serata era limpida, le finestre della cucina aperte verso la strada. Lo sentimmo gridare “A ghè i american a Curez!” mentre proseguiva pedalando verso la Geminiola. Dunque se c’erano gli americani a Correggio, era tutto finito, il fronte era già passato e non ce n’eravamo accorti. Quel 23 aprile era il girono della nostra liberazione. Due giorni dopo tutta l’Italia sarebbe stata liberata.


Dall’ansia e dalla trepidazione si passò alla gioia. Finalmente! Non andammo a mangiare il gnocco fritto nel rifugio. Cenammo in casa con la luce accesa e le finestre spalancate senza più preoccupazioni per Pippo.


A me rimase solo un po’ di delusione per aver mancato l’ultima occasione di trascorrere la notte nel rifugio sotto terra. 


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