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Angelo

Lauro Messori 1989

Giungeva tutti gli anni puntuale tra novembre e dicembre. Veniva dal Veneto e pare che da quelle parti ci fosse gente più povera che in Geminiola. Non chiedeva nulla e si accontentava di trovare da noi un tozzo di pane e un giaciglio di paglia nella stalla per la notte. Si chiamava Angelo. Sapeva fare di tutto: dava una mano a governare le mucche, impagliava le sedie ormai logore con i cartocci del granoturco, faceva le scope di saggina, aggiustava le cassette di legno che servivano per l'uva durante la vendemmia, andava in campagna a potare le viti e gli olmi. Da noi si sedeva alla nostra tavola a mangiare, ma dormiva nella stalla; neanche pensarci a dargli un letto, lui era abituato così e sembrava che non potesse fare a meno del tepore della stalla, accompagnato nel sonno dal ruminare delle vacche.


Aveva sempre tante storie da raccontare e alla sera i bambini gli si facevano intorno, insieme coi grandi, per ascoltare quei fatti di cui nessuno riusciva a capire dove finiva la realtà e dove iniziava la fantasia; e il racconto, con quella cadenza veneta, aveva il sapore di una provenienza lontana. Camminava giorni e giorni per venire fin qua, lungo strade fiancheggiate da filari di platani nel veronese, lungo canali e pioppeti nel mantovano, attraversava il Po sul ponte di barche a San Benedetto. Dovunque, lungo le strade, conosceva gente e si fermava quà e là a dare una mano a chi aveva bisogno del suo aiuto, a raccontare le sue storie, per un piatto di minestra e una fetta di polenta e un letto di paglia da cui si sprigionava ancora l'odore dell'estate e delle stoppie.


Pareva che non avesse preoccupazioni per la sua vita, come gli uccelli dell'aria, che non hanno bisogno di abiti sontuosi perché il buon Dio li ha forniti di piume, non hanno bisogno di seminare poiché la natura gli procura il becchime necessario al loro sostentamento. Il suo spirito nomade era contento di quella vita che sapeva infondere anche negli altri il suo ottimismo. Era sempre allegro e amava scherzare con tutti. Così anche quando aveva detto alla Tullia che i suoi bei capelli biondi a boccoli erano " storti e gobbi" intendeva farle un complimento spiritoso; ma la Tullia era troppo piccola per capirlo ed a quella battuta s'era messa a piangere credendo che una disgrazia fosse capitata ai suoi capelli. Ma forse nemmeno i grandi lo avevano capito.


Era venuto tra noi, ma noi non lo avevamo riconosciuto. Non sapevamo nulla di lui, tranne che veniva da una regione del Nord, ci parlava di cose semplici e vere e noi pensavamo che ci raccontasse delle fole. Pensavamo che venisse a dare una mano nei lavori della stalla e della campagna per un piatto di minestra invece forse non veniva solo per questo, ma per insegnarci ad amare le cose semplici, a disdegnare la ricchezza e ad essere felici di poco, così proprio come gli uccelli dell'aria che ogni mattina salutano festosi, con i loro cinguettio, il nuovo giorno. Soltanto molti anni dopo avrei capito qualcosa di tutto questo, ed avrei ripensato ad Angelo quando compariva, tra novembre e dicembre con un fagotto legato ad un bastone sulla spalla, che era tutto il suo bagaglio; quando non erano stati ancora inventati lo stress e la nevrosi, l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e della terra, quando la gente non era ancora ossessionata dall'ansia del guadagno, quando ancora non c'erano la musica elettronica ed i rumori assordanti, la plastica, le montagne di rifiuti, i cibi surgelati ed i frutti avvelenati; quando ancora i giovani non si uccidevano con la droga, non si parlava di buchi nello strato d'ozono, di distruzione delle foreste dell'Amazzonia e di sterminio delle ultime tribù di indios in Brasile in nome del progresso, quando il Tresinaro era ancora un torrente in cui vivevano i pesci gatto, le tinche e le anguille, prima di trasformarsi in una cloaca a cielo aperto di veleni chimici e di liquami fetidi di porcilaie.


Quando Angelo era venuto quell'anno da queste parti, nessuno aveva pensato che quella potesse essere l'ultima volta che l'avremmo visto. Ci si era abituati alle sue visite come a quelle cose che tornano tutti gli anni a scadenze regolari: come a Natale che cade il 25 dicembre, o alla primavera che inizia il 21 marzo, come alla neve dell'inverno o alla calura estiva. E invece un anno dopo, in quella stagione, Angelo non era riapparso. Era trascorso tutto novembre e si era pensato che forse avrebbe potuto giungere in dicembre; ma avvicinandosi il Natale si era compreso che per quell'anno non sarebbe più venuto. Forse sarebbe tornato l'anno successivo. Ma nemmeno l'anno dopo riapparve e a poco a poco la gente si dimenticò di lui; solo la Tullia avrebbe continuato a ricordarsi di tanto in tanto di Angelo quando si pettinava i biondi capelli ondulati, che da bambina aveva temuto che fossero affetti da una malformazione per essere " storti e gobbi".


Ancora oggi, ripensando a quell'Angelo che veniva dal Veneto, cerco di ricordarmi qualcuna delle sue storie. Ma non me ne viene in mente nessuna mentre cresce il dubbio che lui non venisse solo per aggiustare le sedie o per dare una mano nelle stalle o per aiutare a potare le viti; e forse non potrebbe più tornare ora, poiché non troverebbe più il tepore delle stalle con i giacigli di paglia ed il ruminare delle mucche; non troverebbe le cucine annerite dal fumo del camino, dove si assaporava un piatto di minestra con i fagioli e le cotenne di maiale, non ci sono più sedie da impagliare o cassette per l'uva da inchiodare; e forse non ci sarebbe più nessuno disposto ad ascoltare le sue storie troppo semplici, ormai presi tutti da ben altre storie ed immagini che giungono nelle nostre case.


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