I
Quell'anno mia madre aveva trascorso un inverno di sofferenza: quasi tutto il tempo costretta a letto con dolori reumatici che le impedivano di muoversi. Il medico passava una volta alla settimana, scuoteva la testa: pareva che non ci fossero medicine efficaci. Unica cosa da fare, starsene al caldo e aspettare che venisse la bella stagione. Se poi durante l'estate avesse potuto andare al mare a fare le sabbiature, quello poteva essere un rimedio… Intanto avevamo scoperto che riscaldando dei mattoni o delle tegole nel forno della cucina economica e ponendoli sulle parti più doloranti del corpo - la schiena, le braccia, le ginocchia - si alleviava un poco il male.
I miei fratelli avevano installato una piccola stufa di terracotta nella camera da letto, facendo uscire la canna fumaria da una parete. Io allora avevo poco più di una decina d'anni, mi incaricavo di alimentare il fuoco con pezzi di legna. Il tiraggio non sempre funzionava bene. Quando il vento soffiava da ovest, si infilava nella canna fumaria impedendo la fuoruscita del fumo all'esterno, che finiva per riempire la stanza.
Qualche volta dormivo in un lettino nella stessa stanza della mamma. Una notte verso l'alba, stavo sognando che mi trovavo in una specie di camera a gas ed ero sul punto di morire. Non potevo muovermi, come se fossi paralizzato; volevo chiamare aiuto, ma non avevo voce e dalla mia bocca non usciva alcun suono. Mi sentivo soffocare, le narici e la gola mi bruciavano. Quando ormai mi ero rassegnato a morire, mi svegliai all'improvviso e vidi la stanza avvolta in una densa nebbia; mia madre mi stava chiamando. La stanza era piena di fumo. Fuori c'era pioggia e vento. Il fuoco nella stufa si era spento a causa del vento che non consentiva il tiraggio ed i legni si erano ridotti a dei tizzoni fumanti.
II
L'inverno sembrava non finire mai. Però anche quella volta tornò la bella stagione. Arrivò la primavera, ritornarono le rondini. Ce n'erano tante, come tutti gli anni e davano allegria perché quello era il segno che l'inverno era terminato. Facevano i loro nidi nella stalla, sui capitelli delle colonne, nel fienile e sotto il portico dove venivano alloggiati il carro, il biroccio e gli attrezzi della campagna.
Mia madre incominciò a sentire i benefici della bella stagione. E, via via si alzava dal letto sempre più frequentemente ed a poco a poco riprendeva a fare i lavori di casa.
Ricordando quello che aveva detto il medico, si incominciò a parlare, in casa, della possibilità che, con l'arrivo dell'estate, mia madre andasse al mare a fare le sabbiature. Si decise anche che io l'avrei accompagnata: avevo la fortuna d'essere il più giovane dei fratelli e, appena terminata la scuola, ero libero: la campagna poteva fare a meno del mio contributo per i lavori estivi.
Ero molto eccitato e ansioso di vedere il mare: cercavo di immaginarlo. Sapevo di una grande distesa d'acqua di colore azzurro, perché vi si specchiava il cielo, con delle onde come quelle che si formavano nell'acqua del Tresinaro gettandovi un sasso, però molto più grandi. Alla sera andando a letto, tardavo ad addormentarmi perché indugiavano a pensare al mare, con tanta sabbia sulla riva, dove mia madre avrebbe fatto le sabbiature.
III
La primavera passò in fretta e giunse l'estate. Il caso volle che un'amica di mia madre, che si chiamava Nina, conoscesse a Gabicce una famiglia di pescatori che durante l'estate affittavano le stanze della loro casa per guadagnare qualche soldo, e loro si ritiravano in una baracca costruita lì accanto. Anche la signora Nina doveva fare le sabbiature, cosicché l'idea d'andare insieme e occupandosi lei di scrivere a quella famiglia per prenotare una stanza con l'uso di cucina, facilitò la cosa.
In casa non s'aveva l'abitudine di comperare molte cose per il vitto di tutti i giorni, poiché dalla campagna, dalla stalla e dal pollaio si otteneva quasi tutto ciò che serviva per vivere: dalla frutta e verdura ai polli ed il latte… Senza contare che durante l'inverno s'ammazzava il maiale da cui uscivano salami, coppe, prosciutti, lo strutto per friggere ecc… Giusto si comprava la carne di manzo qualche domenica e le arance durante l'inverno per le feste di Natale e Capodanno. La prospettiva dunque di andare via per un mese e di dover comprare tutto, dalla frutta alla verdura, dal latte alle uova, fece sorgere qualche preoccupazione. Così si pensò di portare via da casa, quanto più si poteva. Si trovò un baule e si pensò di riempirlo di tutto quanto poteva servirci e spedirlo per ferrovia all'indirizzo di Gabicce. Vi si cacciarono dentro, avvolti in carta di giornale, i fagioli freschi dell'orto per fare le minestre, i fagiolini da fare in insalata, pomodori, patate, cipolle, aglio, piselli, radicchi, prezzemolo, carote, rosmarino, mele, susine… poi la farina bianca per fare la sfoglia, del formaggio, un salame e non ricordo quanti altri prodotti di stagione fossero disponibili in quell'epoca di luglio. Si scartò l'idea di metterci delle uova che potevano rompersi, e del latte che sarebbe andato a male, benché le mucche della nostra stalla ne producessero decine di litri ogni giorno.
Il baule, appena riempito, fu portato con un calesse alla stazione ferroviaria di Correggio. Espletate le formalità della spedizione, fu abbandonato in un locale dove entrava il sole e faceva un caldo opprimente.
IV
Finalmente la partenza! Inutile dire che, durante la notte non avevo dormito per l'eccitazione del grande viaggio, il primo vero viaggio della mia vita.
Alla stazione di Correggio ci trovammo colla Nina e tutti e tre salimmo sul treno della linea Reggio-Correggio-Carpi, che era ormai giunto all'età della pensione. Qualche anno dopo infatti - facevo il liceo - venne soppresso e ricordo che Stelio, un mio compagno di scuola, era andato ad assistere al passaggio dell'ultima corsa ed aveva pianto di commozione.
Prima di salire sul treno però demmo un'occhiata nel locale dov'era stato messo il baule: era ancora là, in compagnia di qualche altro grosso pacco. Mia madre preoccupata, andò a chiedere spiegazioni, e qualcuno assicurò che da lì a tre giorni sarebbe partito con un treno merci.
V
Il viaggio da Correggio a Reggio durava almeno un'ora, con quel treno leggendario che si diceva, ogni tanto, a corto di carbone, si fermasse in mezzo alla campagna e il macchinista andasse a cercare qualche fascina di legna dai contadini per continuare ad alimentare la locomotiva a vapore.
A Reggio scendemmo e ci fecero salire su un vagone merci del treno proveniente da Milano e diretto a Bologna-Rimini-Ancona. Era da poco finita la guerra e le Ferrovie dello Stato erano più disastrate del solito. Ci assicurarono che a Bologna avremmo potuto salire su un vagone passeggeri con tanto di sedili di legno. Da Reggio a Bologna intanto si stava chiusi al buio come animali, soffocando dal caldo, e in piedi a meno di non sedersi sul pavimento. Noi viaggiavamo in terza classe: credo che per i viaggiatori di prima e seconda ci fosse un trattamento migliore.
Non ricordo il resto del viaggio, dopo quel primo tratto: solo ricordo che, a causa della temperatura torrida, avevamo sempre molta sete e scendevo a bere alle fontanelle di ogni stazione, di gran corsa, col terrore che il treno ripartisse all'improvviso abbandonandomi sul marciapiede. E poi, verso Rimini, la vista del mare, una cosa immensa come mai avrei potuto immaginare!
Scendemmo alla stazione di Cattolica ed alla fine del viaggio, mi sembrava d'aver attraversato mezzo mondo. Fuori dalla stazione salimmo tutti e tre su un calesse con le valigie ed in poco più di 15 minuti giungemmo alla casa di Gabicce.
VI
Quello stesso giorno ed i giorni successivi un susseguirsi di emozioni e di eventi: il mare, la spiaggia, la sabbia, il sole che bruciava la pelle, la grande scottatura, le vesciche che si formavano sulla pelle sulla schiena. Non c'erano creme protettive. Mia madre mi metteva un po' d'olio d'oliva, ma ora credo che servisse a friggermi ancor meglio. Poi quando incominciò a spellarsi, la schiena divenne una carta geografica con tanto di isole, penisole, mare e continenti: e sulle spalle si formarono delle piaghe che si cicatrizzarono soltanto dopo il ritorno dal mare.
L'attività principale era costituita dalle sabbiature di mia madre e della Nina. Appena si arrivava sulla spiaggia al mattino, io stesso preparavo due grandi buche, scavando la sabbia con le mani e facendone intorno un argine. Sembravano due fosse, benché poco profonde, preparate per la sepoltura. Nelle ore più calde, quando la sabbia era bollente e la gente ci saltellava sopra come su dei carboni accesi, la mamma e la Nina vi si sdraiavano ed io le ricoprivo completamente con la sabbia che stava intorno, lasciando scoperto soltanto il viso che s'imperlava immediatamente di sudore. Quello che dovevano patire le due povere donne, lo sapevano solo loro.
Io intanto andavo a fare un bagno, mentre loro restavano sotto la sabbia ed il sole inclemente del mezzodì le cuoceva a fuoco lento per circa un'ora. Cosa non dovevano fare per i reumatismi! Anzi il medico aveva detto a mia madre che l'acqua del mare non doveva toccarla nemmeno con un dito. Il sudore che si liberava nella sepoltura impregnava la sabbia che si appiccicava alla pelle ed al costume e, al momento di uscirne le due donne sembravano due mostruose statue di sabbia. Il mio lavoro riprendeva con frizioni di sabbia secca e bollente per togliere la sabbia impastata dal sudore: ripuliti alla meno peggio s'andava a casa, 30 m dalla spiaggia. Le due donne erano spossate ed avevano bisogno di qualche attimo di riposo e poi preparavano da mangiare.
Per parecchi giorni si dovette comperare di tutto, dalla frutta alla verdura poiché del nostro baule, pieno di ogni ben di Dio, non si intravedeva l'arrivo. Ogni pomeriggio, dopo un breve riposo, s'andava alla stazione di Cattolica per vedere se era arrivato.
Era trascorsa ormai più di metà del mese, quando finalmente, con grande emozione, riconoscemmo il nostro baule in un magazzino merci. Lo caricammo su un calesse e ritornammo a Gabicce. Depositato nella cucina, ci accingemmo ad aprirlo. Incominciai a sentire un odore di cui mi sarei ricordato, tanti anni dopo, passando nelle ore più calde della giornata attraverso il mercato di un paese tropicale: un misto di odori di frutti e verdure putrefatte al sole.
I fagiolini, i pomodori, le cipolle, il prezzemolo, i piselli e l'insalata avevano formato un gran minestrone marcio impastato con la farina e la carta di giornale. Credo che mia madre avrebbe pianto di rabbia, ma lei era una donna di spirito e sapeva dissimulare i suoi sentimenti: e poi nella sua vita aveva avuto ben altri dispiaceri, rispetto ai quali, un baule pieno di cose marce era roba da ridere. Così fece, infatti incominciò a scherzarci sopra. Lavorammo un po' a tirar fuori ed a ripulire alcune cose che si erano salvate dalla putrefazione: un po' di patate, qualche cipolla, le mele, le susine che erano state colte mezze acerbe, l'aglio… e per il resto della stagione si continuò a comprare insalata, pomodori, fagioli… e tutto quanto ci serviva per mangiare fino alla fine del mese. Si continuarono le sabbiature e la geografia della mia schiena continuò a modificarsi fino a scomparire quasi del tutto isole, promontori continenti.
La storia del baule non ha avuto un impatto particolare nella nostra esistenza. Per caso me ne sono ricordato mi sono divertito a parlarne poiché mi ha fatto ritornare con nostalgia alla semplicità della nostra vita di un tempo. Ci mancavano tante cose, ma ci accontentavamo di poco.
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