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Il pioppo presso la strada

Lauro Messori 1989

Dopo la disgrazia in cui aveva perso la vita il figlio maggiore cadendo dal pioppo, la Dirce non si era più ripresa da una specie di torpore in cui era caduta. Aveva perso ogni interesse nella vita ed in qualsiasi attività della campagna; così trascorreva un giorno dopo l'altro, d'estate a fare la treccia con cui venivano confezionati i cappelli di paglia, e d'inverno a filare la canapa. A nulla erano valsi i tentativi di tutti gli altri della famiglia per smuoverla dalla sua apatia: perché c'era anche da pensare alle altre cose; c'era da occuparsi del bestiame per tutti i santi giorni dell'anno, c'erano i lavori di campagna a incominciare dalle fascine dopo la potatura degli olmi e della vite alla fine dell'inverno, c'era da zappare, fare i fieni, la mietitura e poi c'era da " fare la foglia" dagli olmi e via di seguito fino alla vendemmia.

Suo marito Emore aveva più di una volta alzato la voce, che così non si poteva andare avanti. Ma quando si era reso conto che non c'era nulla che la smuovesse ed era come parlare ad un muro, aveva capito che nella testa della Dirce c'era qualcosa che non funzionava più e, da quel momento l'aveva lasciata in pace.

Ci si consolava in famiglia pensando che anche il suo lavoro, in fondo, contribuiva in parte, seppur modestamente, a mandare avanti la baracca: ogni settimana infatti al sabato passava uno a ritirare i chili di treccia di paglia fatta dalla Dirce che poi portava ad una ditta di Carpi dove si facevano i cappelli. E prima di andarsene le lasciava la paglia nuova e poche decine di lire. Ma lei quei soldi non li voleva nemmeno vedere; li metteva sul comò senza contarli, dove restavano fino alla sera quando Emore, tornando dal lavoro, li metteva nella cassa comune della famiglia.

Quanto alla canapa che filava veniva poi usata per tessere le lenzuola; ogni circa tre anni d'inverno veniva portato giù dalla soffitta un vecchio telaio che si montava nella stalla, dove per qualche giorno le donne della casa si alternavano a fare la tela.

Per fortuna che la famiglia, come la maggior parte a quel tempo, era numerosa, perché si stava tutti insieme finché la casa non scoppiava. Così c'era sempre qualcuno che faceva certi lavori per tutti: per la Dirce, c'erano la suocera e la cognata Giuditta che pensavano alla casa, a far da mangiare e lavare anche la sua roba, quella di suo marito e degli altri due figli rimasti. Lei non dovevo pensare a null'altro se non a muovere in continuazione, meccanicamente, quelle dita che seguitavano a produrre treccia o filo di canapa.

Avrebbe potuto anche diventare cieca e da quelle dita, che ormai vedevano per i suoi occhi, sarebbe lo stesso continuata ad uscire treccia di paglia durante l'estate e filo di canapa durante l'inverno.
Smetteva solo quando la Giuditta gridava dalla cucina che era ora di pranzo o di cena o alla sera tardi quando il lume ad olio aveva esaurito la riserva di combustibile. Alla domenica mattina, senza che nessuno le dicesse nulla, si alzava di buon'ora, si metteva l'abito della festa e si incamminava lungo la strada della Geminiola per andare alla prima messa a San Biagio.

Non era mai andata al cimitero a fare una visita alla tomba del figlio Fermino; era come se per lei non ci fosse mai stato. Dopo la messa riprendeva in fretta il cammino per tornare a casa. Si rimetteva il solito abito da lavoro, che in origine doveva essere nero con palline bianche, ma col tempo aveva assunto una colorazione tra il grigio e il verdastro; e riprendeva il suo lavoro.

La Dirce non conosceva nessun altro mondo al di fuori della Geminiola e dintorni; prima di sposarsi infatti abitava poco più in là vicino a San Martino in Rio. Il viaggio più lungo che aveva fatto in vita sua era stato fino a Modena, nel giorno del matrimonio: per anni ne avrebbe parlato, senza però riuscire a descrivere l'emozione che aveva provato quando era salita sulla Ghirlandina, nel vedere tutta la città dall'alto.

Tanti anni più tardi non era più sicura d'esservi stata per davvero a Modena e, poiché quel mondo che aveva visto una sola volta era talmente diverso da quello in cui era abituata a vivere, aveva incominciato a credere d'aver solo fatto un sogno.
Non aveva mai visto neppure i monti da vicino e quanto ne sapeva era più o meno ciò che le aveva raccontato l’Ines quando era stata a Quattro Castella a trovare dei parenti ed al ritorno diceva che aveva proprio visto le montagne così da vicino che si potevano toccare con le dita.

E quando in primavera scendeva l'arrotino da Villa Minozzo e i bambini gli si facevano intorno, mentre era intento a pedalare ed a passare coltelli e forbici sulla ruota abrasiva, per ascoltare storie di pecore o di una mucca caduta in un burrone, la Dirce tendeva l'orecchio mentre le sue dita continuavano a far rotare il fuso per torcere il filo, ed i suoi occhi sbirciavano quel profilo azzurro dell'Appennino che sembrava appena al di là di San Martino e pareva ritagliato nella carta da zucchero e appiccicato al cielo con la colla di farina. E si chiedeva con stupore come su quelle creste azzurre ci potessero essere case e stalle e pecore che pascolavano e mucche che cadevano in burroni.

Erano passati sei anni da quando le avevano portato a casa il corpo senza vita del figlio Fermino. Quel giorno di marzo Fermino era salito su una lunga scala a pioli per potare il pioppo presso il fosso della strada. Ma c'era un forte vento e lui non aveva tenuto in considerazione gli spostamenti che poteva subire la scala per effetto dell'ondeggiare dei rami a cui era appoggiata. Infatti quando ci fu una raffica di vento più forte, tutta la pianta aveva ondeggiato e la scala si era trovata sbilanciata. Fermino, che in quel momento non aveva nessun appiglio era stato sbalzato all'indietro da un'altezza di 6 o 7 metri e, cadendo al suolo, era andato a picchiare la testa su un tronco abbattuto poco prima e c'era rimasto secco.

Quando la Dirce, mentre stava facendo la sfoglia, se l'era visto portato in casa dal marito e dal cognato, dapprima aveva creduto ad uno scherzo poi, quando le dissero che era caduto dal pioppo, aveva incominciato ad urlare, che non poteva essere vero e infine aveva dovuto rassegnarsi e aveva pianto per un giorno e mezzo, finché dai suoi occhi non uscivano più lacrime.

Al momento in cui aveva visto la salma partire sul carro funebre, trainato da un cavallo, in direzione di San Biagio, era sembrato che non le importasse più di nulla. Non aveva accompagnato il funerale, ma era rimasta sulla strada ad osservare il carro funebre con il corteo di persone, scomparire dove la via Geminiola si immette nella via San Biagio; alla sua vista, 100 m più in là, non era rimasto che quel grande pioppo, parzialmente mutilato dei suoi rami, da cui due giorni prima era caduto Fermino. Allora rimasta del tutto sola, era rientrata in casa, era andata sul solaio a cercare la rocca, il fuso e la canapa già cardata; poi si era seduta sotto il portico e si era messa a filare.

Il 31 marzo aveva interrotto quel lavoro per fare la treccia, fino a settembre, allorché aveva ripreso la rocca e il fuso. Così alternando i due mestieri dall'estate all'inverno, era andata avanti per anni, finché in una mattina simile a quella della disgrazia avvenuta sei anni prima, accadde un fatto nuovo.

Il giorno prima c'era stata una consulta in famiglia ed era stato deciso di abbattere il vecchio pioppo presso la strada. Il tronco sarebbe stato mandato alla segheria di San Martino per ricavarne delle assicelle con cui fare le casse che dovevano contenere l'uva, durante la vendemmia.

La Dirce, sempre intenta alla filatura della canapa, aveva assistito ad un gran fermento quella mattina, un andirivieni di vanghe, badili e picconi. Tutti gli uomini della casa avevano lavorato per almeno due ore a scavare tutt'intorno al pioppo, a scoprirne il ceppo e poi a tagliarne col piccone le radici. Finalmente con una lunga corda, legata precedentemente ad un ramo, ne era stata pilotata la caduta lungo la carrareccia che fiancheggiava la strada. Il rumore dello schianto, alla caduta del pioppo, era giunto fino alla Dirce ed era stato come uno scrollone che la svegliasse da un torpore durato sei anni. Quindi smise di filare, andò in solaio a riporre la rocca, il fuso e la canapa, si mise un pesante grembiule per i lavori di campagna, prese un'accetta sotto il portico e, passando dalla cucina dove la Giuditta stava facendo la sfoglia, disse: " vado in campagna a fare le fascine ".

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