Mentre me ne andavo ripensavo agli anni della fanciullezza e dell'adolescenza trascorsi da queste parti, e i ricordi si accavallavano con un turbinio di immagini e un susseguirsi di giorni e di stagioni: quando le stagioni avevano un ritmo lento, l'inverno era interminabile, la primavera ventosa e piena di colori, le strade bianche di polvere, l'estate inaridiva la terra, le stoppie abbagliavano con la loro luce dorata e la Geminiola si spaccava in mille crepacci.
Nei lunghi inverni il Tresinaro gelava e i ragazzi andavano a pattinare sul ghiaccio coi “troccoli” fatti di uno zoccolo di legno d'abete su cui era inchiodata una tomaia così rigida da provocare talvolta delle piaghe ai calcagni. I piedi avvolti in pezze di cotone ed infilati in questi "troccoli” si congedavano nel percorso tra la casa e la scuola e soltanto alla sera si riscaldavano nel tepore del letto allorché si risvegliavano i geloni con un prurito doloroso. Il letto era stato riscaldato col "prete", un'apparecchiatura in legno, contenente una padella di bracci e ricoperta di cenere, che si infilava sotto le coperte. E quando immergevi le mani violacee di freddo in un catino di acqua calda al ritorno dalla scuola, mentre riprendevano calore, ti facevano così male da far piangere.
I vetri della cucina sgocciolavano al condensarsi il vapore delle pentole, e quelli delle camere da letto si coprivano di uno strato di ghiaccio arabescato che riproduceva immagini fantasiose di fiori e stelle.
Le serate invernali trascorrevano nel tepore della stalla, mentre le donne cucivano rattoppando pantaloni e camice di flanella e gli uomini giocavano a carte con i vicini venuti in "filos" (arcaica derivazione greca per " amicizia"). E il sabato sera, prima della cena, si faceva il bagno nella stalla in un mastello riempito d'acqua riscaldata nella pentola grande; così per tutto l'anno tranne che nei mesi più caldi, allorché ci si poteva lavare all'aperto.
Mentre me ne andavo ripensavo alla primavera di un tempo, quando le rondini tornavano a fare i nidi sotto il portico o sulle colonne delle stalle, i campi di grano ondeggiavano come un mare verde e i semi degli olmi volavano nell'aria tersa. Per la fiera di San Giuseppe, quasi a conferma dell'inizio della primavera, riapriva il chiosco dei gelati nel piazzale Carducci di Correggio e, come ad esorcizzare l'inverno che si allontanava, i bambini facevano le prime prove a camminare a piedi nudi sulla terra dei campi, ancora fredda. Quei piedi rosei, appena guariti dai geloni, incominciavano così a formare il callo che avrebbe consentito di passare tutta l'estate con risparmio di scarpe, che peraltro, per garantire una maggiore durata, venivano risuolate con copertoni vecchi delle biciclette e ulteriormente protette con delle speciali mezzelune di ferro inchiodate alla punta e al tacco.
Ripensavo ancora all'estate afosa, ai campi di grano maturo, alla mietitura con la falce, la schiena curva, fradicia di sudore sotto il sole cocente, la trebbiatrice che per un giorno intero sollevava una gigantesca colonna di polvere mentre trasformava i covoni in sacchi di grano e balle di paglia; le spigolate nelle stoppie riarse e le zanzare che, all'ora del tramonto, uscivano a nugoli dalle crepe della Geminiola. E nelle tiepide serate di fine estate la sfogliatura del granoturco a cui era invitato tutto il vicinato, un lavoro che era un pretesto per stare insieme e far festa; poiché mentre si sfogliavano le pannocchie gialle si cantava e alla fine, ripulita l'aia dai cartocci e ammonticchiate le casse piene di pannocchie, si facevano due salti al suono di una fisarmonica.
Mentre mi allontanavo dai luoghi dell'infanzia ripensavo a tutto questo, ma senza nostalgia o rimpianti, perché ogni ricordo era legato ad una vita dura di ristrettezze e di sacrifici. Me ne andavo con una valigia piena di sogni verso la città, che doveva essere la prima tappa di altri viaggi ben più lunghi per il mondo, verso una vita che doveva farmi dimenticare i geloni ai piedi, le spigolate nei campi riarsi dopo la mietitura, la polenta con la frittura di maiale, il bagno del sabato nella stalla durante l'inverno o nell'acqua del Tresinaro durante l'estate.
E invece quante volte mi sarei ricordato di tutte quelle cose a cui erano legate le mie radici, di quella gente fra cui avevo vissuto e fra cui un giorno avrei voluto ritornare!
Me ne sarei ricordato fra i monti Zagros dell'Iran, nelle giornate torride e nelle notti in cui il cielo sembrava così vicino che le stelle quasi si potevano toccare, o in volo sull'Africa sfiorando le nevi eterne del Kilimangiaro; nei grandi alberghi delle città o nei ricevimenti delle ambasciate; camminando sulla grande muraglia della Cina o risalendo le piramidi Maya del Messico; nella foresta amazzonica o fra le rovine delle città andine degli Incas. Steso una notte sulla sabbia tiepida di una spiaggia dei Caraibi ad ascoltare il mormorio delle onde mi sarei ricordato di quando bambino nelle serate d'agosto, sdraiato sull'aia ancor calda ascoltavo il canto dei grilli e contavo le stelle di un angolo del cielo. E mentre il giorno di Natale, dopo aver assistito alla " messa del gallo" in una città del sud America, me ne andavo verso una spiaggia assolata vicina, avrei pensato a quando, tanti anni prima, il nonno avrebbe voluto farmi " studiare da prete" , ma obiettavo che in chiesa d'inverno faceva troppo freddo perché non c'era la stufa.
Avrei ancora ripensato alla mia gente quando un giorno entravo, durante la messa in una chiesa in Mozambico per la curiosità di ascoltare i canti dei neri, accompagnati da tamburi e maracas; e mentre me ne stavo isolato impalato con un salame presso la porta, al momento in cui il sacerdote invitava i fedeli a scambiarsi un segno di pace, una giovane donna, non bella, ma con un sorriso che le illuminava il volto, si era staccata dalla folla che stava tra i banchi ed era venuta verso di me, tendendomi la mano; la stessa cosa aveva ripetuto uno storpio che stava appoggiato a una colonna. Solo allora mi sarei reso conto che anche quei negri erano miei fratelli e con quel gesto mi avevano voluto mostrare il loro amore.
E a poco a poco mi sarei reso conto che molti uomini sono troppo occupati dal lavoro, dai viaggi, dagli impegni sociali, dalle ambizioni, dall'ansia di successo e di accumulare ricchezze, per avere il tempo di occuparsi dei problemi dello spirito; e dimenticandosi dell'anima si ritrovano alla fine con l'angoscia e il vuoto nel cuore.
Forse anch'io appartenevo a quella categoria di persone?
Non era forse preferibile la serenità di una vita semplice, magari ai margini della Geminiola, alla smania di ottenere tutto quanto il mondo di oggi può materialmente concedere, fino allo spettacolo estremo di un ragazzo che muore con una siringa infilata nel braccio?
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