Non saprei dire da quando, esattamente, si cominciò a darle l'appellativo di " Casa Vecchia". Posso presumere che ciò sia avvenuto dall'anno in cui il nonno decise di costruire una nuova casa, a poco più di 200 m, sulla stessa proprietà terriera, in cui alloggiare una parte della famiglia, e più precisamente il maggiore dei suoi figli con la rispettiva moglie e figli.
Le previsioni di crescita della discendenza erano tali infatti per cui la vecchia casa non sarebbe più stata sufficiente a contenere tutti. Quell'anno era il 1926. Si dà il caso che il maggiore dei figli del nonno fosse proprio mio padre, che in quell'epoca, a sua volta, aveva già tre figli. La nuova costruzione venne chiamata " la Cà Nova" ed in contrapposizione, la vecchia abitazione, le cui origini si perdono nell'800, venne chiamata " la Cà Vecia".
Le previsioni del nonno non si erano dimostrate infondate; infatti dopo meno di una quindicina d'anni la grande famiglia aveva raggiunto il numero massimo di una trentina di persone, delle quali un nucleo di 10 alloggiava nella casa nuova (tra queste nel frattempo si era aggiunta la mia presenza) e una ventina vivevano nella Casa Vecchia. Fu solo alla morte del nonno che avvenne la divisione della proprietà terriera fra i vari nuclei e da quel momento le nuove famiglie incominciarono a moltiplicarsi ed a disperdersi.
Ma non è della storia della famiglia che voglio parlare, bensì di quella "Casa Vecchia” che nella mia infanzia rappresentava il punto di riferimento di un sistema economico-familiare patriarcale.
Io non ci ho mai abitato, però ci passavo molta parte del mio tempo, o perché ci andavo a giocare con i miei cugini coetanei o perché partecipavo come spettatore o come parte attiva, nei limiti dell'aiuto che allora si richiedeva ai bambini, nei grandi eventi che scandivano ogni anno la vita contadina; come la trebbiatura del grano, la scartocciatura del granoturco, la pigiatura dell'uva … tutte operazioni che si facevano solo alla "Casa Vecchia”.
Sicuramente l'evento più spettacolare dell'anno era la trebbiatura del grano che richiedeva uno spiegamento di persone e macchinari che mi affascinavano. A distanza di parecchi metri dalla trebbiatrice veniva piazzato un pesante trattore, chiamato il " Bufalo". Per metterlo in moto bisognava scaldare la testa del motore con una specie di fiamma ossidrica fino a farla diventare rosso-incandescente. Il trattore veniva collegato alla trebbiatrice tramite una enorme cinghia ed un sistema di pulegge. Poi, attraverso altre cinghie, pulegge e ingranaggi, venivano messi in moto tutti i meccanismi fino all'ultimo macchinario (la pressa) che comprimeva la paglia e ne formava delle balle che venivano espulse, legate col filo di ferro. Tutto questo insieme di macchinari si allineava per quasi una cinquantina di metri, tra la "Casa Vecchia” e la barchessa in cui erano stati accumulati in precedenza i covoni del grano.
Un esercito di persone era impegnato in quell'attività: praticamente tutti i componenti della famiglia più alcuni operai che andavano di casa in casa a seguito della trebbiatrice: questo enorme macchinario, di colore rosso, per me aveva i connotati e un marchingegno da fantascienza. Tutti portavano grandi cappelli di paglia ed un fazzolettone annodato dietro la nuca, che copriva naso e bocca per riparare la respirazione dalla polvere che si stava formando come una colonna di fumo, visibile a centinaia di metri dalla casa.
Alcune persone erano addette al trasporto dei covoni di grano dal cumulo sotto la barchessa fino al tetto della trebbiatrice dove c'era un'apertura che li inghiottiva. Ai bambini non era mai concesso di salire sul tetto della trebbiatrice e quell'apertura che inghiottiva i covoni, come un'orrenda voragine, per me ha sempre rappresentato un qualcosa di misterioso che incuteva paura. Allora guardavo con timoroso rispetto l'uomo che stava là in cima infilando i covoni in quell'apertura, rischiando ogni momento di essere egli stesso inghiottito e trebbiato insieme al frumento.
C'erano persone addette all’insaccatura del grano che usciva, come per miracolo, da una feritoia sul lato della trebbiatrice. Ogni sacco, appena riempito, veniva chiuso, legato e caricato sulle spalle di un uomo robusto che lo portava nel granaio. Uno o due erano responsabili della pressa, l'ultimo della catena dei macchinari; ed un certo numero di persone addetta a vari lavori, tra cui anche noi bambini, incaricati, tra l'altro, di portare da bere ai lavoratori grandi, con una sporta di paglia in cui erano infilate una bottiglia d'acqua ed una di vino e un bicchiere per tutti.
Al tramonto tutti i macchinari si fermavano, la gente si lavava all'aperto con grandi secchi d'acqua e il sapone che si usava per il bucato; i più giovani s'andavano a tuffare nel Tresinaro, in prossimità del bel ponte antico fatto di mattoni che, quando negli anni 60 divenne pericolante, fu completamente demolito ed al suo posto fu costruito un anonimo ponte di cemento armato.
Dopo una giornata di caldo, sudore, polvere e fatica, finalmente il riposo della sera, intorno ad una grande tavolata per la cena, fatta di insalata di radicchi o fagiolini, cipolle tagliate a fette, uova sode, qualche fetta di salame e chili di pane fatto in casa.
Tra gli altri avvenimenti che scandivano il susseguirsi delle stagioni e richiamavano un certo numero di persona alla "Casa Vecchia”, ricordo, verso la fine dell'estate la scartocciatura del granoturco, detta "lo sfoglino" (sfogliatura). Terminata la raccolta nei campi delle pannocchie di granoturco e fattane una montagna sull'aia, qualcuno andava in bicicletta ad avvisare i vicini che alla sera c'era lo " sfoglino" alla "Casa Vecchia”. Tutti aderivano all'invito poiché si trattava di un lavoro divertente ed un pretesto per far festa: tant'è vero che durante l'operazione, che consisteva nel togliere il cartoccio dalle pannocchie, si chiacchierava, si raccontavano barzellette e si cantava in coro. E noi bambini, seduti sulla montagna di pannocchie ancora da scartocciare, le spingevano giù coi piedi in modo che giungessero a portata di mano degli operatori.
I cartocci venivano accumulati da qualche parte nel fienile per essere utilizzati durante l'inverno per impagliare sedie o sgabelli, per fare sporte o semplicemente per far il letto alle mucche nella stalla. Alla fine sbucava una fisarmonica, qualcuno si metteva a strimpellare ed in pochi attimi l'aia veniva ripulita per diventare una pista da ballo.
Eravamo poveri e la vita era dura in campagna, però ancora nessuno conosceva parole come nevrosi, stress, droga, inquinamento, discoteche, problemi esistenziali e ci si divertiva di cose semplici. Anche le stagioni erano regolari: calda l'estate, fredda l'inverno; e c'erano ancora la primavera e l'autunno.
Potrei perdermi nei ricordi legati alla "Casa Vecchia”: i giochi con i miei cugini, le missioni di esplorazione nella grande soffitta, dove ci si smarriva tra vecchie cianfrusaglie, polvere, telaio per tessere la tela delle lenzuola, ferri arrugginiti, casse vuote, sedie rotte…
Non veniva buttato via mai nulla qualsiasi cosa un giorno o l'altro avrebbe potuto servire per ripararne un'altra e finiva in soffitta.
Un ricordo particolare, al di fuori della routine della vita contadina, riguarda il matrimonio del più giovane dei miei zii. Io dovevo avere due o tre anni e l'unica scena che mi è rimasta nella memoria è la cena di nozze nella stanza che veniva utilizzata solo per i pranzi importanti: ero stato posto di fronte alla sposa, la mia nuova zia, a recitare tutte le filastrocche che avevo imparato a memoria, che raccontavano di una poiana che stava su un palo e chiamava Carnevale o della Peppina che faceva il caffè ed anche lei era innamorata di un capitano o di un gatto a cui era stata tagliata la coda e poi era stata fasciata con una benda rossa, affinché non ce se ne accorgesse… pareva che tutti si divertissero e ridevano come matti ed io non capivo perché.
Le lunghe serate d'inverno si passavano nella stalla al tepore procurato dalle vacche. Qualche volta alla famiglia si aggiungevano alcuni vicini venuti “in filos”. Tanti anni dopo avrei dovuto scoprire che quello strano termine “in filos” aveva una derivazione dal greco per significare "in amicizia". Era la vita sociale del mondo contadino. Quando, alla spicciolata, tutti si erano riuniti, gli uomini seduti intorno al tavolo da gioco della stalla per fare una partita a briscola, le donne terminati i lavori in cucina, si mettevano a rammendare pantaloni e camice e noi bambini giocavamo a rimpiattino tra cumuli di paglia che serviva per fare il letto alle mucche, allora il nonno si metteva a recitare il rosario in latino invitando tutti a seguirlo. Noi bambini tralasciavamo a malincuore i nostri giochi, i grandi interrompevano la partita, mentre le donne pregavano continuando a cucire.
È passato tanto tempo! Quante persone hanno vissuto tra quelle mura! Tutto è cambiato, un mondo antico scomparso, ma la casa vecchia è ancora là, come una povera vecchia signora che sta aspettando di morire abbandonata da tutti. L'ultimo terremoto ne ha fatto crollare parte del tetto. Un'enorme squarcio come una profonda ferita. Attraverso quella ferita, passando di là, pare quasi di sentire un lamento.