Aveva piovuto così forte per un giorno e una notte che il Tresinaro era straripato proprio di fronte alla vecchia casa dove c’è il ponte con le chiuse che servono per sbarrare l’acqua durante l’estate per l’irrigazione.
Non ci si ricordava, a memoria d’uomo, che il Tresinaro avesse mai provocato un’alluvione, da queste parti. Per dar luogo ad un fatto così eccezionale quindi, doveva essere intervenuta un'altra causa, concomitante alla pioggia. Si diceva che le chiuse fossero rimaste abbassate, ma non si capisce come ciò potesse avvenire in quella stagione, dato che eravamo ormai in autunno, quando già da tempo non si usava l’acqua per irrigare. Ma è anche probabile che, chiuse abbassate o no, un tronco d’albero fosse andato ad incastrarsi sottoil ponte trattenendo
poi la sterpaglia trascinata dall’onda di piena e ostruendo a poco a poco il passaggio della corrente.
Fatto sta che quando l’Ines, alle sei del pomeriggio era uscita per andare a dar da mangiare alle galline, s’era vista di colpo un enorme specchio rigonfio di acqua limacciosa che era più alto del cortile e faceva paura e già verso il gruppo dei pioppi stava scavalcando l’argine, formando nel cortile un lago che si estendeva rapidamente e avanzava verso la casa.
Era stato tale lo spavento, che s’era lasciata cadere la bacinella col mangime per le galline ed era finito in mezzo all’erba ed ai sassi del cortile, dove di lì a poco sarebbe arrivata l’acqua a portarlo via; ed era rimasta colla bocca aperta per gridare, senza riuscire ad emettere un suono.
Non s’è mai saputo per quanto tempo l’Ines fosse rimasta così ammutolita e paralizzata a contemplare quell’enorme massa d’acqua che si gonfiava sempre più e veniva verso di lei.
Ad un certo punto deve esser stato l’effetto dell’acqua fredda che aveva incominciato ad entrarle nelle scarpe, raggelandole le caviglie, a provocarle un brivido per tutto il corpo, svegliandola dal torpore in cui era caduta.
Di colpo le tornò la voce ed incominciò a gridare come una matta che la casa stava andando sott’acqua.
Udendo quelle grida Athos si era precipitato fuori dalla stalla con il forcone in mano, con ancora su l’erba che stava distribuendo alle vacche. Per un momento aveva creduto che l’Ines fosse andata giù di testa, ma poi quando si era reso conto di quanto stava accadendo, incominciò a urlare anche lui e a chiamare tutti gli altri. Fu allora che anche i vicini, dall’altra parte del Tresinaro, incominciarono ad arrivare sulla strada che corre sull’argine sinistro. E tutti gridavano insieme, dicendo che bisognava fare qualche cosa, che bisognava chiamare quelli della bonifica e andare a Correggio ad avvisare i carabinieri, ma quando qualcuno s’era deciso ad andare a dare una mano a quelli della casa dell’Ines che stavano andando sott’acqua, ormai non si poteva più passare. Il ponte infatti, essendo piuttosto basso per via delle chiuse, veniva già scavalcato dall’acqua sempre più veloce che si gettava dall’altra parte in un vortice impetuoso. E allora qualcuno correva verso la propria casa a prendere la bicicletta, qualcuno correva a piedi lungo la strada per passare dall’altro ponte dove si innesta la via S. Biagio e qualcuno diceva che bisognava attaccare il cavallo al carro per andaread aiutare quelli dell’Ines a portare in salvo la roba.
Intanto l’acqua, dopo aver fatto il giro del cortile, era entrata dal portone sotto il portico, affacciandosi dall’altra parte della casa, che guardava la Geminiola. Poi aveva incominciato ad entrare in cantina dove, di lì a poco i tini e le botti vuote (ancora non s’era fatto il vino nuovo), si sarebbero messi a galleggiare sull’acqua. Quando l’acqua si affacciò sulla porta della cucina, che l’Ines aveva lasciato aperta per andare dalle galline, e incominciò a scorrere per tutto il pavimento, la vecchia, che stava filando con la rocca presso il camino e non s’era ancora accorta di niente né del vociare fuori della casa perché era sorda, dapprima non capì che succedeva e cercò di tirar su i piedi dall’acqua; poi,
ricordandosi cha da un giorno e una notte stava piovendo ininterrottamente, credette che fosse arrivato il diluvio universale e che quello fosse l’inizio della fine del mondo e si fece rapidamente il segno della croce guardando l’immagine della Madonna appesa al di sopra della porta.
L’acqua stava entrando nella stalla sollevando e facendo galleggiare la paglia e provocando un gran tumulto tra le vacche che muggivano disperate e scalciavano sentendo il freddo lungo le zampe ed erano terrorizzate dal guizzare dei pesci che entravano ormai senza alcun ritegno nelle greppie. Ormai era penetrata in ogni angolo della casa; in cucina aveva spento il fuoco del camino provocando un enorme fumo grigio che si sprigionava dai tizzoni bagnati e avvolgeva la vecchia, rimasta là sola a dire le preghiere con l’acqua che le arrivava
alle ginocchia.
Intanto sulla strada, dall’altra parte del Tresinaro, la folla aumentava poiché la notizia della piena si era sparsa in un baleno per tutto San Biagio, dai sobborghi di Correggio fino ai confini della provincia di Modena; e tutti restavano appoggiati alle biciclette cogli ombrelli aperti, a contemplare lo spettacolo. E al vedere la casa dell’Ines, che ormai si specchiava nell’acqua da tutte le parti, c’era qualcuno, che pare fosse stato a Venezia in viaggio di nozze, che diceva che là era la stessa cosa; ma gli altri si chiedevano come era possibile vivere nelle case in mezzo all’acqua e dover andare in barca dalla stalla alla cucina.
Dopo aver completato l’accerchiamento e l’isolamento della casa, mentre all’interno già stava rimontando i primi gradini della scalache portava al piano di sopra, alle camere da letto, l’acqua incominciò a scorrere verso mezzogiorno, in direzione della Geminiola.
Non c’era nessun ostacolo che la rallentasse e la corsa dell’acqua diventava sempre più furiosa. Prima riempiva i solchi, poi i fossi di scarico poi le carraie ed infine ricopriva tutti i campi e gli olmi coi tralci della vite vi si specchiavano. Passò in vicinanza della villa rossa di Cottafavi, messa lì in mezzo a fare da sentinella alla grande tenuta, ci girò intorno e proseguì verso sud, arrivò fino alla casa dei Gianferrari, che adesso non c’è più, perché è stata rasa al suolo dopo che per anni, essendo stata abbandonata, era diventata ricovero di topi e pipistrelli.
La casa era là dove le due strade della Geminiola si congiungono a T e proprio in quell’angolo, era arrivata l’acqua e non era andata oltre essendo stata sbarrata dalle stesse due strade, rialzate rispetto alla campagna e però anche lì aveva ricoperto la campagna ed era penetrata in ogni angolo della casa al piano terra.
Fu quello spettacolo che mi apparve l’indomani mattina che il cielo era ancora grigio e continuava a cadere qualche goccia d’acqua, quando mio fratello Sandrino, caricandomi sulla canna della bicicletta mi aveva portato prima a vedere la casa dell’Ines, dove l’acqua arrivava poco sotto il davanzale delle finestre e poi la casa dei Gianferrari, là al centro della Geminiola.
La campagna era un enorme specchio d’acqua grigio da dove spuntavano gli olmi coi tralci della vite, che avevano un aspetto triste per trovarsi in un ambiente che non era il loro.
Avrei dovuto ricordarmi di quello spettacolo tanti anni più tardi, quando all’alba di un mattino tropicale mi trovavo al bordo di una palude, a 200 Km. da Caracas, dove mi aveva trascinato il vecchio marchese Merenda, per andare a caccia di anatre.
In quella regione l’acqua di un fiume, per effetto di uno sbarramento artificiale, aveva invaso la selva formando una laguna e le piante erano morte, perché le radici erano affogate nell’acqua, e di esse erano rimasti dei tronchi pelati che uscivano dalla palude ed i rami sembravano braccia nude imploranti verso il cielo. Era lì che all’alba si alzavano in volo migliaia di anatre selvatiche.
Tanto aveva fatto il mio vecchio amico, che da anni viveva in Venezuela, che mi aveva convinto ad accompagnarlo a caccia, mi aveva messo un fucile in mano, presso uno di quei tronchi scheletrici e grigi e mi aveva detto di sparare appena un volo di anatre fosse passato su di me.
E io avevo sparato una, due… tre volte e le anatre cadevano al suolo. Era la prima volta che tenevo in mano un fucile e sarebbe stata l’ultima. Ricordo che fra le anatre cadde un uccello meraviglioso dalle piume color rosso fiamma, doveva essere un ibis scarlatto.
Il Merenda mi disse che a quello non avrei dovuto sparare perché era una specie protetta; mi sentii ancor più in colpa benché non lo avessi colpito volutamente, dato che sparavo quasi senza mirare nei gruppi di anatre che qualcuna ogni tanto cadeva. Ne avrò abbattuto una dozzina, oltre al povero ibis; il marchese Merenda, vecchio e incallito cacciatore, da solo ne aveva preso un centinaio, abbastanza per riempire i frigoriferi di tutti gli amici di Caracas.
Fu dunque quella palude del Sud America, da cui spuntavano scheletri di alberi, teatro di quella mia esperienza di caccia che per tanto tempo avrebbe lasciato in me un senso di colpa, che ad un certo momento mi avrebbe ricordato lo spettacolo che avevo contemplato, seduto sulla canna della bicicletta di mio fratello, tanti anni prima, in un grigio mattino d’autunno, in un angolo di Geminiola, dove gli olmi spuntavano tristi dall’acqua che copriva la campagna.
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