Ero venuto da te per la prima volta un tardo pomeriggio, dopo l'ufficio, insieme con Barbara, una brunetta di vent'anni, alla sua prima esperienza di assistente volontaria.
Ricorderò sempre quei tuoi grandi occhi spalancati che, in certi momenti, mentre mi parlavi, sembrava che mi fissassero; invece erano completamente spenti, da tre mesi, per colpa di un virus il cui nome mi era diventato familiare da quando mi occupavo di ammalati di AIDS.
Avevi lasciato da poco la comunità in cui eri stato ospite negli ultimi mesi e avevi deciso di vivere in una modesta casa popolare il tempo che ti restava ancora da vivere: non ti andava più di continuare a stare con gli altri, da quando, per la sopraggiunta cecità, non potevi più partecipare alla vita in comune e ti sentivi emarginato e inutile. Tanto valeva vivere da solo, imparare a muoversi in un piccolo mondo buio fatto di due stanze in cui a poco a poco prendevi conoscenza con le tue mani di ogni particolare, di ogni angolo e oggetto. Sapevi prepararti il caffè e Dio solo sa come tu potessi accendere il gas con un accendino per le sigarette col quale io, la prima volta, mi scottai le dita prima di riuscirci.
Barbara e io facemmo subito un piano affinché tu potessi gestirti quanto più possibile da solo; delle medicine ne facemmo tanti mucchietti fra i quali avresti prelevato quelle che dovevi prendere al mattino e quelle della sera, quelle di cui assumere una sola pillola e quelle di cui ne dovevi prendere due; ma poi avevo preso a venire da te ogni mattina, mentre andavo al lavoro e alla sera quando me ne tornavo. Ti preparavo il caffellatte, i biscotti e le medicine.
Ti ritenevi fortunato per abitare proprio lungo la strada che io percorrevo tra la mia casa e l'ufficio; ed io presi ad intensificare le mie visite. Una sera dopo cena di portai a fare una passeggiata nei giardinetti che si trovano a due isolati da casa tua. Fu anche l'ultima passeggiata che facemmo insieme e fu allora che venni a conoscere buona parte della tua vita.
"I miei genitori si erano già separati quando io nacqui. Così, quando ebbi sì e no due anni mi affidarono ad una coppia di coniugi anziani, che vivevano in Romagna. Credo che mia madre versasse loro 15 o L. 20.000 lire al mese per mantenermi. Non mi sono mai affezionato a questi come a dei genitori adottivi e quando mia madre mi venne a prendere per portarmi con sé per qualche giorno, volli restare in città: avevo otto anni. Un giorno venne qualcuno a cercarmi mentre stavo giocando sulla piazzetta vicino a casa. Seppi dopo che mia madre aveva tentato di ammazzarsi ed io fui portato in un collegio. Ci rimasi fino a tredici o quattordici anni, poi mia madre mi riprese con sé. Ma dopo qualche tempo mi accorsi che lei non sopportava d'avere un figlio tra i piedi, così me ne andai per conto mio e ben presto presi la strada sbagliata. Non ho più avuto notizie dei miei genitori. Forse ci sono ancora da qualche parte; ho il dubbio che mio padre viva in Abruzzo. Ora capisci perché non ho proprio nessuno…"
Fin dall'inizio avevo provato ammirazione per la tua forza di volontà, per il coraggio di vivere in un mondo in cui si era spenta per sempre la luce. Eri perfettamente consapevole della tua condizione, del fatto che non c'era alcuna speranza e che la morte sarebbe arrivata prima o poi. Tuttavia avevi deciso di lottare fino all'ultimo. Avevi deciso che anche in quel buio la vita poteva essere vissuta fino in fondo. Avevi rinunciato ad andare in ospedale a fare esami su esami solo per verificare che ormai le difese del tuo organismo erano a zero. A che serviva? Però prendevi tutte le medicine per combattere, finché fosse stato possibile, le varie malattie che ti assediavano e che cercavano un varco per abbattere il tuo organismo. Dopo gli occhi avrebbero paralizzato gli arti, poi t'avrebbero aggredito i polmoni, l'intestino, il cervello…
"Quando mi accorsi che stavo diventando cieco mi disperai. Avrei preferito morire. Che senso aveva continuare a vivere senza vedere più nulla, senza poter fare più nulla? Mi ricordo che da principio, al risvegliarmi al mattino, non vedendo alcuna luce, pensavo di trovarmi in una stanza completamente buia ed ero preso dall'ansia di spalancare le finestre. Ma dopo qualche attimo mi ricordavo che ero cieco e ricadevo nella più cupa disperazione. Il medico era stato chiaro, non avrei mai più riacquistato la vista. Poi mi sono rassegnato e mi è tornata la voglia di continuare a vivere anche così, anche con quella spada di Damocle sul capo che prima o poi mi avrebbe inferto il colpo finale".
Ci eravamo ormai organizzati abbastanza bene. Vittoria veniva a prendere la roba da lavare, Barbara e Teresa venivano a fare le pulizie e a preparare qualche piatto di pastasciutta all'ora dei pasti, quando era possibile. Marco e Gino ti facevano fare qualche passeggiata al sabato o alla domenica. Mi ricorderò sempre quando mi raccontasti divertito come Daniela, con l'esuberanza dei suoi vent'anni era riuscita ad aprire l'anta di un armadio la cui serratura si era bloccata. Ci aveva provato Marco con delicatezza, senza riuscirvi; lei invece aveva preso un martello e con un colpo ben assestato … la serratura era saltata. Io passavo mattino e sera; mi occupavo della spesa, della preparazione delle medicine, della colazione o della cena. Purtroppo così durò poco. Incominciasti ad avere dolori alla bocca e alla gola. Intensificata l'assunzione di antibiotici, quando sembrò che la situazione migliorasse in bocca e in gola, l'infezione scese nell'esofago e nello stomaco. Deglutire anche la saliva ti produceva dolori atroci. Intensificai le mie visite. Quasi tutte le sere, dopo cena, fosse anche tardi, alle 11 o mezzanotte, dopo una riunione o la cena ripassavo da te. Avevo le chiavi, entravo, sentivo la tua fronte scottare. Ti davo da bere, yogurt, succhi di frutta… Ma ogni sorso ti procurava una sofferenza indicibile. Ormai avevi smesso di prendere qualsiasi cibo solido.
"Credo che questa volta non ce la farò! Finora ho superato tutte le crisi, ma questa volta non ci riuscirò. È troppo forte il dolore. Non riesco più a sopportarlo…"
Me ne uscivo nel cuore della notte e rimettendomi in auto per tornare a casa sentivo l'angoscia di chi è impotente di fronte alla sofferenza di un'altra persona. Sentivo il bisogno di parlare di te quasi che ne potessi avere un aiuto e così nella riunione del nostro gruppo, oltre a quelli già coinvolti, altri si offrirono per fare qualcosa: Massimo ti avrebbe fatto una visita medica; Gianni sarebbe venuto a metterti le flebo. Quella stessa sera, dopo la riunione, Tiziana mi volle accompagnare per venire da te. Lei era nuova come volontaria, però aveva l'esperienza di una madre.
"Io sarei più contento se potessi continuare a venire tu; ma mi rendo conto che te ne dovrai andare via per qualche tempo … Credo che se non c'eri tu sarei già morto…"
Ho imparato molto da te, Gianki, ancora possa sembrare assurdo che si possa imparare da chi ha vissuto una vita sballata, da chi si è trovato solo, abbandonato dai genitori, senza una guida, da chi si è preso il virus iniettandosi l'eroina, in una notte, con una siringa passata da un amico che l'aveva appena usata per sé; quell'amico spergiurava di essere siero-negativo e dopo sette mesi moriva di AIDS.
Ricordo le tue preoccupazioni nei miei riguardi, come quando mi accingevo a toglierti dal braccio l’ago della flebo senza mettermi i guanti; al che tu sentendo il contatto delle mie mani scoperte gridasti forte: " mettiti guanti" terrorizzato che qualche goccia del tuo sangue potesse infettarmi.
Da te non ho soltanto appreso come ti procurarvi la roba, come te la passavi in galera dove ti avevano cacciato per averti trovato in casa alcune dosi. Non ti ho chiesto se la spacciavi tu stesso. Da te ho capito che quando uno diventa dipendente dall'eroina, da solo non ce la farà mai ad uscirne. Tu ci avevi provato diverse volte. Ma non solo non avevi nessuno che ti aiutasse, non avevi una famiglia un punto di riferimento; non avevi neppure alcuno scopo nella vita, o dei valori a cui riferirti, perché nessuno te li aveva mai insegnati.
"Non ho mai avuto una persona da amare e che mi amasse … Sì, anch'io ho avuto qualche ragazza, ma anche loro facevano parte del giro, erano delle sbandate come me, e non s'è mai creato un vero legame tra di noi. Così la mia vita non aveva nessun significato. Sapevo che la droga mi avrebbe rovinato. Ci ho provato varie volte a smettere, sono rimasto senza anche sette mesi, ma poi riprendevo. Non avevo nessuna motivazione per non farlo".
Eppure due anni fa hai smesso realmente, quando ti sei accorto di essere ammalato. È stato l'istinto di conservazione o lo scoprire, quando ormai era tardi, che la vita ha sempre un suo valore e la devi conservare fino alla fine?
Ci sono stati dei momenti in cui ho desiderato che tu morissi, per non vederti soffrire in modo così atroce. Avrei voluto compartire le tue sofferenze per alleviarti un po' il male. Così mi sono accorto che anch'io soffrivo e quasi mi compiacevo del fatto che si trattasse di una pena deliberatamente voluta e accettata. Nessuno mi obbligava ad occuparmi di te. Ci sono le strutture sociali (ci sono?....) E gli ospedali … Eppure valeva la pena di far questo. Tutti hanno il diritto di avere qualcuno che li accompagni almeno negli ultimi passi della loro vita; anche gli ammalati di AIDS. Poi, ogni volta che ti vedevo stare meglio ero contento, come se la vita fosse tornata a rifiorire. Da te ho imparato che si deve amare la vita sempre e lottare per essa anche quando ti sfugge, da te ho imparato ad amare le persone come te, a non lasciarle sole e a non avere paura né vergogna dell'AIDS. Ho conosciuto la rabbia e la disperazione delle persone che si sono viste estratte a sorte e condannate, come in una tragica lotteria, fossero drogati o pluritrasfusi, omosessuali o eterosessuali; e dopo quel verdetto di morte si sono visti abbandonati dagli altri, dai " sani", emarginati, privati degli amori e degli affetti del prossimo.
Così ho imparato a voler più bene alle persone come te, perché più degli altri ne hanno bisogno.
Me ne sto andando via dalla città per alcuni giorni. In questo periodo ci saranno Barbara e Daniela: i loro anni messi insieme di poco superano i tuoi 37 anni; e poi Tiziana Flavio, Gianni, Massimo e Michele. Ognuno di loro deve fare molta strada per venire da te, ma ti assisteranno con cura. Lo so che ti mancherà qualcuno la cui strada, dalla casa al lavoro, passava da te…
Fatti forza, Gianki; quando avrai superato la crisi, la più difficile, non dovrei soffrire più. Si dice che tutto nella vita deve avere un significato, anche il dolore più insopportabile. Io ci credo, anche se ora nemmeno io lo posso capire.
Non ti ho dato granché. Quel che ho fatto per te è una goccia nel mare, ma so che per te è stato un piccolo mare. Quand'anche tutto ciò che io e gli altri facciamo sia poca cosa per alleviare la tua sofferenza, possa almeno in parte il nostro affetto sopperire a quell'amore che non hai mai avuto prima nella tua vita.
Coraggio Gianki, fra poco tornerò in città. Aspettami. Ripasserò da te ogni mattina. Ti preparerò il caffelatte, i biscotti. Poi andrò al lavoro; ripasserò la sera e ti preparerò la cena. La tua storia non è ancora finita. Ti riprenderò per mano e seguiterò ad accompagnarti per quanto mi è concesso di farlo per l'ultimo tratto di strada che ti resta da percorrere, al buio. Io so che dopo ritroverai la luce.
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