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Com'era mia madre

Lauro Messori 1995

Mi è difficile ora rievocare l’immagine di mia madre all’epoca in cui io ero molto piccolo. Mi aveva generato all’età di 39 anni, sesto di sette figli e, per una contadina, a quei tempi, quella era l’età di una persona già anziana, nell’aspetto. Associata alla figura di mia madre c’era quella di un’altra donna, che aveva qualche anno in più. Era mia zia Italina, sorella di mio padre, che viveva con noi. Da piccola era stata colpita dalla poliomielite, che l’aveva paralizzata ad una gamba. Questo aveva fatto sì che rimanesse nubile, perché una donna che non fosse in grado di lavorare i campi o procreare figli, non poteva sposarsi. Aveva comunque appreso un lavoro congeniale alla sua condizione fisica: faceva la sarta. Doveva essere molto brava e da lei venivano tutte le ragazzine del vicinato per imparare a cucire. Ma non si limitava a cucire abiti da uomo o da donna ed a rammendare quelli vecchi, perché si occupava un po’ di tutti noi, sette figli, zoppicando per la casa con un apparecchio che le sosteneva la gamba offesa. Per tutti noi era come una seconda madre ed era dolce ed amorevole come nessun’altra persona. Mia madre doveva occuparsi dei mestieri più pesanti della casa: fare da mangiare, fare le pulizie, il bucato e, quando le restava un po’ di tempo, partecipare ai lavori nei campi. In casa eravamo in dieci.


1938


Il giorno in cui era nata mia sorella più piccola, Odilia, io ero stato mandato alla Casa Vecchia, a giocare con i miei cugini, perché non era bene che io fossi presente quando sarebbe venuta una certa signora, che poi seppi che si chiamava “levatrice”, a portare la nuova creatura.

1939

Odilia stava diventando una bambina bellissima, e noi eravamo una famiglia felice, ma non durò molto, perché di lì a poco si seppe che la zia Italina aveva un brutto male. Il periodo di tempo in cui lei rimase a letto aspettando che il cancro se la portasse via, mi era sembrato lunghissimo allora, come fossero passati tanti anni. In realtà si trattò di alcuni mesi di grande sofferenza, eppure mi ricordo di non aver mai sentito un gemito uscire dalla sua bocca. Una fredda sera d’inverno si sentì il verso di una civetta e qualcuno disse che era segno di malaugurio, un segnale premonitore. Dopo due giorni la zia Italina spirò e poco prima di morire ricordo che aveva raccomandato a tutti di aver cura di Odilia che aveva poco più di un anno. Fu allora che mia madre si mise in testa un fazzoletto nero, annodato dietro la nuca, ed io credetti che avrebbe dovuto portarselo per tutto il resto della sua vita. Infatti la prima immagine chiara che mi rimase di mia madre fu quella di una donna dalla corporatura un po’ robusta, vestita di nero con il capo coperto da quel fazzoletto nero che non lasciava intravedere nemmeno una ciocca dei suoi capelli che già da tempo stavano incanutendo. La zia Italina per lei era stata molto di più di una cognata, era stata più di una sorella e le aveva voluto molto bene. Credo che la perdita della zia Italina avesse rappresentato il primo grande dispiacere di mia madre e mai avrebbe potuto immaginare che di lì a poco avrebbe dovuto affrontarne altri ancora più grandi.


1940

Non dimenticherò mai quella mattina di un settembre tiepido, quando si sentiva già nell’aria l’odore dell’uva che incominciava a maturare, delle mele e delle cotogne: io avevo sei anni e stavo oziando sull’aia davanti alla casa. Mio padre e tutti i miei fratelli erano già andati nei campi, mia sorella Renza, due anni più grande di me, stava aiutando mia madre a riassettare la cucina, dopo la colazione del mattino a base di tazzoni di zuppa di latte e pane secco tagliato a fette. All’improvviso sentii mia madre rivolgersi ad un’immagine della Madonna posta entro una specie di cassetta a mo’ di nicchia, rivestita di carta colorata e appesa al di sopra dell’uscio della cucina: “Maria Vergine che mi sta succedendo?” Le gambe non la reggevano e si trovo seduta su una sedia ed immediatamente ebbe la sensazione che qualcosa di grave stesse succedendo fuori da quella stanza. “Dov’è l’Odilia?” Era lì con lei fino a due attimi prima con una grossa mela in mano che tentava di sbocconcellare. Lei e mia sorella maggiore da un lato, io dall’altro, cominciammo a correre in giro chiamando l’Odilia che aveva giusto due anni. Forse non era passato nemmeno un minuto quando sentii mia madre e mia sorella gridare insieme, mentre, dopo aver fatto un giro intorno alla casa, mi stavo avvicinando al portico nel retro della casa, che serviva per ricovero attrezzi di campagna. Per un attimo non capii se si trattava di grida di gioia o di disperazione, fino a che non vidi mia madre con in braccio quel corpicino coi biondi capelli a boccoli che sgocciolavano. Lì vicino c’era un mastello alto e stretto posto su una specie di carriola, che doveva servire per portare acqua in campagna per irrigare delle piante. Sul fondo c’era un po’ d’acqua, non più di una spanna. L’Odilia doveva essersi arrampicata fino al bordo del mastello e così facendo le era caduta la mela sul fondo: lei doveva aver creduto di poterla riprendere sporgendosi e così facendo era caduta a testa in giù sul fondo del mastello. Allora si era pensato che, non potendosi muovere in quel maledetto recipiente, che sul fondo doveva aver un diametro non superiore a 20 25 cm. fosse rimasta soffocata in quella spanna d’acqua. Tanti anni dopo assistendo all’esumazione di quel corpicino nella tomba di famiglia del cimitero di S. Biagio, mio fratello Sandro aveva notato una frattura sul suo cranio. La prima persona ad accorrere alle grida disperate di mia madre era stato Giovanni G. da una delle case dei vicini. L’avevo poi sentito dire a mia madre, forse nel tentativo di consolarla, ma non ricordo se in quel momento o qualche giorno dopo, che “è meglio una disgrazia morta che una disgrazia viva”. Allora io non capivo cosa volesse dire. Solo dopo avrei compreso che si riferiva a suo figlio che doveva alternare periodi di manicomio con periodi a casa. Il corpicino dell’Odilia venne poi ricomposto sul divano trasformato in letto, che si trovava nella stanzetta in cui fino a poco più di un anno prima la zia Italina faceva il suo lavoro di sarta. Tutt’intorno al corpicino vestito di bianco, erano state poste della grosse margherite colte nell’orto, che dovevano piacere tanto all’Odilia, che andava sempre a raccoglierle, finendo per strapparle. Mia madre rimase seduta tutto il tempo presso quella piccola salma, col suo fazzoletto nero annodato intorno al capo, ancora più stretto fino a coprirle quasi gli occhi. Si alzò soltanto al momento del funerale accompagnando la bara fino alla porta. E mentre tutti noi seguivamo a piedi il carro funebre verso S. Biagio, lei rimase sulla soglia della porta finché tutto il lungo corteo scompariva, svoltando a destra per la Via Tresinaro e poi si chiuse in casa. Mia madre non volle più vedere quel mastello maledetto: credo che poi fosse venuto uno zio a prenderlo per portarlo alla Casa Vecchia; o forse ne fu fatta legna da ardere nella stufa.


Ogni volta che passo dal cimitero e rivedo la foto dell’Odilia, che certo non rende giustizia a quella che era la sua bellezza (dicevano che il suo viso pareva quello di un angelo) mi ricordo come nacque quella foto del gruppo di famiglia da cui l’immagine fu tratta, dato che era l’unica foto esistente dell’Odilia. Giusto due mesi prima della disgrazia era stato deciso di fare una foto del gruppo della famiglia, composta da nove persone: i due genitori e noi sette figli. La zia Italina ci aveva lasciati da poco più di un anno. Finalmente passò da noi il fotografo Tamagnini, una tarda mattinata di un’afosa giornata di luglio. Tutti a cambiarsi ed a mettersi l’abito buono della festa: gli adulti con giacca e cravatta, perfino io, sei anni, mi ero messo la giacca. Bisognava approfittare di un momento in cui una nuvola copriva il sole, altrimenti la luce troppo forte ci avrebbe creato qualche problema per tenere gli occhi aperti. Ci sistemammo all’ombra di un cespuglio davanti a casa: mio padre e mia madre seduti; tra di loro l’Odilia, io e mia sorella Renza in piedi al lato rispettivamente di mio padre di mia madre; dietro i quattro fratelli più grandi, impettiti e molto seri. Quando finalmente ci trovammo tutti a posto, mentre l’Odilia cercava di divincolarsi, stretta fra un ginocchio di mio padre e quello di mia madre, ecco la nuvola dissolversi ed il sole riapparire in tutto il suo bagliore. Ma ormai la foto andava scattata e così fu: dopo una settimana ognuno di noi poté vedersi nella foto con una smorfia particolare o con gli occhi semichiusi. Tamagnini poi ebbe il suo da fare per isolare e ritoccare l’immagine dell’Odilia dal gruppo e ricavare la foto da porre sulla lapide cancellando da un lato il ginocchio di mio padre, ridisegnando un braccino dall’altro, ricostruendo i capelli in parte schiacciati contro il petto di mia madre.


Nel frattempo era scoppiata la guerra. Ricorderò sempre che un giorno era venuto il medico di famiglia, il dr. Romano, a visitarmi perché avevo il morbillo. Io non potevo capire niente di quella guerra, ma credo che mia madre avesse espresso qualche sua preoccupazione. Il medico aveva cercato di tranquillizzarla: “Non si preoccupi, signora, nel giro di una quindicina di giorni sarà tutto finito. Ha visto? La Francia ha già calato le braghe!” Io non sapevo cosa volesse dire che la Francia aveva calato le braghe. Quello che avevo capito invece era che mia madre non si era affatto lasciata convincere dalle parole del dr. Romano e continuava a mantenere le sue preoccupazioni, pensando forse ai suoi figli maggiori tre dei quali ormai in età di leva. Gli anni successivi purtroppo le avrebbero dato ragione. Io ero diventato un “Figlio della lupa” ed ogni sabato dovevo andare a scuola, per celebrare il “sabato fascista”, indossando una divisa costituita da due fasce bianche, incrociate sul petto, sopra il grembiulino nero. Al punto d’incrocio delle due fasce era fissata una grossa M che stava a significare MUSSOLINI. Era giusto quando dovevo mettermi quella divisa che sentivo mia madre imprecare contro quel Mussolini, perché le procurava tanto lavoro in più, come se non ne avesse già abbastanza con i sei figli rimasti. Ogni settimana doveva lavare e stirare quel maledetto “cinturone” (mi pare questo fosse il nome dato alla divisa); per di più ad ogni lavaggio, quella M di ferro lasciava macchie di ruggine sulle fasce bianche. Come se non le fosse bastato doversi sfilare la vera dall’anulare ed offrirla al Duce nella grande iniziativa “Oro alla Patria” che doveva servire per farci vincere la guerra! Dai suoi mugugni non si salvavano nemmeno le maestre, tutte schierate con spirito patriottico ad adempiere la volontà del Duce.

Più tardi avrei dovuto rendermi conto che a suscitare quei risentimenti e malumori in mia madre, c’erano ragioni ben più gravi delle macchie di ruggine prodotte dalla M sul mio cinturone.


1943

Mio fratello maggiore Enos era stato chiamato al dovere del servizio militare. Si trovava dalle parti di Milano, mi pare a Lambrate. Scriveva che stava bene; era fortunato che per il momento non veniva mandato al fronte ed alla domenica poteva andare a S. Siro a vedere le corse dei cavalli. Poi venne trasferito dalle parti di Como a “fare il campo”. Fu là che incominciò a sentirsi male ed ad avere delle febbri. Pare che avesse dovuto fare lunghe marce e bere dell’acqua cattiva: i suoi superiori non avrebbero dato molto peso a quel malessere e fu tenuto presso l’infermeria della caserma per parecchi giorni, senza alcuna cura, prima che si decidessero a ricoverarlo all’Ospedale S. Anna, dove gli diagnosticarono il tifo, ad uno stadio molto grave. Quando i miei genitori furono informati sulle condizioni della sua salute, partirono in treno per Como. Credo che mia madre prima d’allora non avesse mai varcato i confini delle province di Reggio o Modena. Io speravo tanto e pregavo affinché Enos tornasse a casa guarito, ma i miei genitori non poterono far altro che assisterlo mentre moriva. Tornarono in treno con mio fratello racchiuso in una cassa di zinco. Era il 21 luglio del 1943 ed aveva da poco compiuto 23 anni. Nessuno di noi fratelli aveva potuto rivederlo, perché la cassa era stata sigillata prima della partenza; tuttavia racchiuso in quella cassa, fece una sosta a casa, prima di intraprendere l’ultimo viaggio per la chiesa di ed il cimitero di S. Biagio. Era la terza volta che una bara usciva dalla nostra casa ed anche quella volta mia madre rimase sulla porta, senza più lacrime negli occhi, mentre un’enorme folla di persone s’incamminava per la strada di polvere bianca, seguendo il carro funebre e poi svoltava per la Via Tresinaro verso S. Biagio. Ricordo ancora che, nella chiesa gremita Don Primo aveva dovuto interrompersi più di una volta durante la cerimonia funebre: credo che la commozione per la perdita di quel ragazzo di 23 anni gli soffocasse la voce in gola. Tante volte poi avrei dovuto sentire mia madre raccontare i giorni trascorsi al capezzale di mio fratello e sentire che l’unica cosa che le aveva dato la forza di continuare a vivere era il pensiero che c’eravamo noi, di sette figli ormai rimasti in cinque. Eppure in quel giorno triste mancava un altro di noi: il secondo dei miei fratelli era in guerra in un’isola dell’Egeo. Ogni tanto giungeva una sua lettera, ma non si poteva leggere tutto quello che vi aveva scritto, perché c’erano frasi o parte di esse che venivano cancellate con dell’inchiostro nero: dicevano che era la “censura”. Poco dopo il funerale di Enos si susseguirono diversi avvenimenti: una mattina sentii dire che il Duce era stato “defenestrato”; io avevo capito che era stato buttato fuori da una finestra del palazzo del Governo. Poi venne l’otto settembre e dalla radio del nostro vicino Giovanni G. sentimmo che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati. Si credette che la guerra fosse finita e che presto mio fratello dall’isola della Grecia sarebbe tornato. Invece apprendemmo poi che tutti i soldati italiani di quell’isola erano stati presi dai tedeschi, rinchiusi su un treno merci e mandati prigionieri in Germania. La guerra non era finita, però la maestra aveva smesso di farci scrivere alla fine di ogni compito “Vincere! Vinceremo!” E un giorno sentii mia madre sfogarsi con la maestra, che secondo lei stava dalla parte del Duce. Era per colpa del Duce, e quindi anche un po’ della maestra, se il primo dei suoi figli era morto ed il secondo stava in un campo di concentramento in Germania, e chissà se sarebbe mai tornato, ed il terzo, scappato dalla caserma in cui faceva il militare, doveva starsene nascosto per non essere preso dai fascisti.


1945

Finalmente venne la primavera del 1945 e la liberazione. Dopo circa un mese arrivò mio fratello dalla Germania. Per non presentarsi direttamente a casa da mia madre e farle prendere un colpo, si era fermato dai vicini. Franco Z. venne da noi per cercare di preparare mia madre all’incontro con mio fratello, facendo strani discorsi su di lui. Ma subito dopo eccolo apparire dalla strada, correre verso di noi che eravamo usciti nel cortile presso la porta della casa, abbracciare mia madre, sollevarla da terra di una spanna e farle fare due giri intorno.


1945-1958

Da quel momento, dopo tanti dispiaceri e tanti preoccupazioni, incominciò un periodo abbastanza sereno per mia madre. Si convinse a togliersi dal capo quel fazzoletto nero che io le avevo visto da sempre, e perfino cambiare il colore delle vesti: dal nero ad un colore più vivace: il grigio. I suoi capelli erano quasi completamente argentati, salvo alcune ciocche che conservavano dei riflessi biondo-dorati, quasi a testimoniare un’antica bellezza. Si infastidiva per quel colore rimasto e avrebbe preferito che fossero tutti completamente bianchi. I miei fratelli maggiori si sposarono e la famiglia ritornò a crescere per raggiungere il numero di 10-11. Le mie cognate fecero sì che mia madre non fosse più oppressa dai vari lavori della casa e ormai nonna, potesse riposarsi un po’ e cullare i primi nipotini. Le profonde ferite che la vita le aveva arrecato, sembrava che col tempo si fossero cicatrizzate, ma probabilmente ciò era avvenuto solo in superficie. Io credo che nel suo cuore si fosse prodotta una profonda lacerazione che prima o poi le sarebbe stata fatale. Io nel frattempo mi ero laureato ed il lavoro mi aveva portato a vivere altrove. Alla fine del 1958 mi trovavo a fare rilevamenti geologici nel sud dell’Italia. Ero venuto a casa a trascorrere Natale e Capodanno. Mia madre era diventata molto triste: lei percepiva sempre in anticipo ciò che stava per succedere. Così io le ero stato vicino fino all’ultimo momento e la sera dell’ultimo dell’anno ero rimasto con lei a giocare a carte.


1959

L’indomani, 1° gennaio, avevo ripreso il treno per tornare in Puglia.

Il 31 gennaio 1959 al Sud era una giornata splendida di sole. Sui monti della Daunia, dove io scarpinavo su e giù per compilare la carta geologica della zona c’erano già i mandorli in fiore e pareva di sentire nell’aria un preavviso di primavera. Sentivo il cuore leggero ed ero contento anche perché avevo avuto da poco la conferma dalla Direzione che presto sarei rientrato a Milano, quindi a due passi da casa: sentivo il bisogno di stare più vicino a mia madre. Nel tardo pomeriggio di quella giornata, al rientro in albergo trovai un foglio di carta nella casella della chiave della stanza. Era un telegramma: “Mamma deceduta stanotte stop Ti aspettiamo”.   Trascorsi la notte in treno e nella penombra dello scompartimento potei piangere silenziosamente, senza che i miei compagni di viaggio, sonnecchianti, se ne accorgessero. Avevo lasciato la Primavera al Sud ed all’arrivo nella Val Padana, alle prime luci dell’alba, mi accolse un paesaggio grigio-gelato: la campagna coperta di brina, l’acqua dei fossi ghiacciata. Arrivato a casa, un abbraccio con mio padre e coi miei fratelli, senza parlare e subito nella stanza di mia madre. Il suo viso era sereno, come di chi è arrivato, dopo un lungo percorso fatto di gioie e dolori. Nei suoi capelli argentati era rimasto quel riflesso biondo-dorato che le dava quasi fastidio e che avrebbe voluto cancellare. Solo in quel momento mi resi conto che avrei avuto tante cose da dirle, che non le avevo mai detto prima.


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