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Teheran 1959

Lauro Messori 1998

Quando l'alba rischiara il cielo, l'aereo ormai in prossimità di Teheran, sorvola i monti del Kurdestan, grigi e rossastri; il paesaggio che appare, forse per la fredda luce dell'alba, dà un senso di infinita desolazione; le uniche tracce di vita sembrano le poche chiazze verdi che seguono i corsi d'acqua di alcune valli. Svaniscono le ultime immagini dell'Italia che ho lasciato ieri sera ed il mio sguardo si perde laggiù tra le montagne del nuovo paese.


Nei monti più a sud andrò a compiere i rilevamenti geologici per i quali giungo in Iran e queste prime immagini mi fanno provare una strana sensazione. Si mescolano confusamente nella mente, i ricordi del paese che ho lasciato e queste nuove immagini, con il presentimento di peripezie e difficoltà, in luoghi selvaggi, tra gente primitiva.


Via via che l'aereo si abbassa, verso oriente si innalza sempre di più la catena dell'Ezburz fra le cui cime si erge il cono bianco di neve del Damavend. Ai piedi di questi monti si stendono migliaia di case basse inquadrate da strade e strade che si incrociano ad angolo retto. Siamo sopra Teheran. Il sole è già sorto e l'immensa distesa di case si colora di una luce giallastra.


L'aereo scende lentamente ed atterra. La moderna costruzione dell'aeroporto è il primo particolare che mi appare dell'Iran.


Ultimate le operazioni doganali esco dall'edificio e mi trovo sul grande piazzale antistante l'aeroporto. Un'ampia strada conduce alla città.


Salgo su un taxi che si avvia verso Teheran correndo all'impazzata fra le altre auto, fra carrettini e pedoni, sorpassando sulla sinistra e sulla destra. Di tutti i taxisti di Teheran doveva capitarmi il più pazzo! Come dirgli di andare più piano? Non conosco una parola di persiano, provo in inglese, ma non capisce. Mi rassegno tristemente e riprendo a guardarmi intorno e così scopro che anche tutte le altre auto occorrono allo stesso modo. Mi rassicuro al pensiero di non essere portato in giro dal più pazzo; forse il modo di guidare le automobili non è che una manifestazione della natura di questa gente o dell'ambiente.


La strada è fiancheggiata da entrambe i lati da un Canaletto in cui scorre l'acqua insieme alle spazzature; si allineano talora due filari di alberi. Dapprima appaiono povere casupole ad un solo piano oltre le quali si stende un terreno rossastro deserto. Si susseguono via via case più alte e palazzi.


L'autista tenta di spiegarmi qualche cosa. E, dai gesti e dall'intonazione della voce credo che mi stia illustrando le cose belle di questa città. Il nome della via che stiamo percorrendo è Shah Rehza; all'inizio infatti vi è una statua di bronzo dello Shah, poi appare il monumento al grande poeta Ferdowsi.


Mi pare di essere entrato in un'epoca strana dove il tempo è un fatto personale; ogni essere ed ogni cosa sembra vivere in un mondo proprio incurante della vita che lo circonda; le persone e le cose, che sono legate ad una povertà che ha migliaia di anni, vivono ai lati di questa sfrenata corsa di auto, come di giovani cavalli in libertà.


Quante volte, tanti anni dopo, avrei dovuto riandare con i ricordi a quelle prime immagini dell'Iran. Quando mi si raccontava dei cambiamenti subiti da quella città e da quel paese per effetto di un grande sviluppo economico. Quel paese che non avrei più rivisto, dopo due anni trascorsi là, poiché il mio lavoro mi avrebbe portato in altre parti del mondo. Quando un imprevedibile rivoluzione avrebbe cambiato la storia del paese, avrebbe cacciato la dinastia dei Rehza Pahlavi, avrebbe seminato sangue, avrebbe sottoposto il paese ai rigori dell'integralismo islamico, avrebbe cambiato i connotati delle città. Quando la televisione m'avrebbe portato delle immagini nelle quali non avrei più riconosciuto i luoghi visti all'epoca della mia permanenza in Iran.


Finalmente scendo all'hotel ed il portiere paga il taxi.


Sono a Teheran da alcuni giorni in attesa di ripartire per i monti Zagros nella regione compresa fra le città di Isfahan e Shiraz. I preparativi della spedizione che verrà compiuta insieme ad altri geologi italiani stanno per essere ultimati.


Ho una giornata libera e la trascorro gironzolando per le vie della città. Scendo per la via Ferdowsi affiancata da negozi in cui si vendono prodotti dell'artigianato e tappeti e giungo nel centro della vita iraniana di Teheran. Pochi stranieri si mescolano alla gran folla degli iraniani che va in su e in giù pigramente, si accoda per salire sugli autobus rossi a due piani, discutere, contratta immancabilmente nei negozi perché è certo che, con un po' di pazienza, ogni prezzo può scendere poco o tanto dalla prima cifra. La radio diffonde dappertutto una musica strana, quasi una nenia monotona e triste. Sui marciapiedi si vende la carne di montone arrostita sulla brace e l'acqua col ghiaccio in enormi bicchieri. Qualcuno si accontenta di questo minimo lusso: riempirsi lo stomaco con mezzo litro di acqua ghiacciata. Un po' di pane e di té l'ha trovato a casa sua. Acquisto un cartoccio di pistacchi, specialità iraniana, e così, un po' masticando e un po' sgusciando con le unghie mi sento più a mio agio. È solo la macchina fotografica che mi impaccia, la passo da una mano all'altra con finta indifferenza e cerco, con scarso successo, di nasconderla sotto la giacca. Ad ogni foto che scatto mi allontano frettolosamente quasi con un senso di colpa, poiché ogni volta che rivolgo l'obiettivo verso qualche scena della strada sento degli sguardi curiosi o diffidenti su di me.


Giungo in prossimità della grande moschea Sepahsalar in una delle zone più popolari di Teheran. Sui marciapiedi c'è un piccolo mercato di frutta, verdura e pesce. Le pecore si aggirano tra le casse di arance e di mele ammucchiate per terra e le immondizie sparse un po' ovunque si addensano maggiormente nel "jub", il caratteristico canaletto ai lati delle strade. Nell'acqua che vi scorre qualcuno si rinfresca la faccia o lava delle pentole o i bicchieri del tè o un paio di pantaloni. Quando al mattino vi scorre più limpida, l'acqua viene raccolta nelle case alle quali non giunge ancora l'acquedotto con le tubature.


Entro nella moschea mettendo una moneta nella mano di un uomo che è all'ingresso e mi guarda interrogativamente. Mi trovo in una specie di recinto o di cortile interno al cui centro si trova una vasca piena d'acqua. Nelle costruzioni che l'attorniano, tutte aperte verso il centro, qualcuno prega.


Sono talmente preso dalla curiosità di essere a contatto con un luogo in cui per la prima volta metto piede, che non posso entrare nella spiritualità di quell'ambiente. Il mio interesse si limita ad osservare le forme architettoniche del tempio e l'atteggiamento di quei fedeli, da cui mi sento estraneo e distaccato.


Molti anni più tardi ogni qualvolta fosse entrato in un luogo similare, avrei dovuto reprimere l'impulso di farmi il segno della croce, come ogni cristiano istintivamente fa entrando in un tempio o in qualsiasi luogo di preghiera. Anche una moschea è un luogo di preghiera ed istintivamente sarei stato portato a rivolgere il pensiero a Dio che nel mondo islamico si chiama Allah, ed avrei ripensato, quasi con un senso di vergogna, a quel giorno in cui visitavo per la prima volta una moschea, con l'animo di un turista curioso e superficiale.


Continuando a gironzolare giungo al gran bazar, formato da un'infinità di gallerie lungo le quali si vende ogni genere di cose, dalle spezie ai tappeti. Quando ormai ho deciso di aver visto abbastanza non trovo più la via d'uscita: non chiedo nulla poiché penso che le poche parole di persiano che ho imparato finora non siano sufficienti per formulare la domanda.


Cerco di ripercorrere la strada già fatta ma ogni galleria che percorro mi sembra sempre nuova. Ad un tratto mi sento sospinto dalla folla vociante e desisto dal tentativo di andare controcorrente in quella fiumana di essere viventi. Mi lascio trascinare, certamente da qualche parte si dovrà sfociare. Infatti all'estremità di una galleria di quel labirinto scorgo una delle strade esterne, mi dirigo in quella direzione e mi ritrovo finalmente alla luce del giorno..


Al calar della sera la città continua la sua vita chiassosa lungo le strade.


Più tardi cominciano ad apparire dei poveri giacigli lungo i marciapiedi. I più miseri si sdraiano sulla pietra nuda o sul cemento ancora tiepido dalla lunga giornata, grati ad Allah d'aver loro concesso un altro giorno ed ora una meravigliosa notte in cui tutti possano riposare. Incominciò a pensare che la notte in Persia sia più bella e le stelle più luminose che in qualsiasi altra parte del mondo.


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