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L'ultimo patriarca

Lauro Messori 1988

Ancor oggi non posso essere certo se io abbia veramente assistito all'incendio che era scoppiato nella barchessa della casa vecchia del nonno, oppure se le immagini rimaste impresse nella mia memoria, non siano che il prodotto dei racconti e delle conversazioni sentite nella mia infanzia.

Non posso dire la stessa cosa dell'incendio che aveva devastato il fienile della casa dell'Ines, quella stessa dove il Tresinaro era straripato allagando la campagna fino in fondo alla Geminiola; in quell'occasione mi ricordo con certezza che io ero andato a vedere lo spettacolo.

Era una mattina d'estate piena di sole e da casa mia si era visto all'improvviso un enorme colonna di fumo nero che si alzava in direzione di San Biagio; si era saputo subito che stava bruciando il fienile dei Marzoli ed io mi ero messo a strillare che volevo andare a vedere e tanto avevo fatto che c'ero andato, disobbedendo a mia madre che in tutti i modi aveva cercato di dissuadermi.

Dell'incendio della barchessa della casa vecchia invece mi resterà sempre il dubbio di averlo visto coi miei occhi o d'averne solo sentito parlare, chissà quante volte. Era piena estate e la barchessa era già stata riempita di fieno e di balle di paglia uscite dalla trebbiatura del grano. Bruciò tutto fino al tetto che crollò dopo che le travi di rovere furono carbonizzate. Dovettero restare in piedi le mura che per anni ed anni ricordo d'aver visto annerite all'interno, in forme fantasiose provocate dal fumo e dalle fiamme.

I pompieri non c'erano e tutti gli uomini, compresi i vicini accorsi, si prodigavano formando una catena con cui si portavano secchi d'acqua dal Tresinaro. Ma chi doveva aver fatto più di tutti era il nonno, che pure doveva avere già una certa età. Le fiamme erano così violente e il calore che si sprigionava dalla paglia e dal fieno era così forte che c'era il pericolo che il fuoco si estendesse alla casa, appena più in là di 5 metri, dove c'era la stalla e poi tutta l'abitazione. Sarebbe stata la rovina.

Allora il nonno si era arrampicato su una lunga scala a pioli, appoggiato alla casa, per gettare acqua con un secchio sulle mura arroventate e sulle travi, che sporgevano sotto il tetto, lungo le grondaie, e che già minacciavano di prendere fuoco. S'era bruciacchiato un braccio in cui avrebbe a lungo portato i segni ed aveva rischiato la vita, ma aveva salvato la casa.

Lo ricordo come l'immagine dell'ultimo patriarca della famiglia; ricordo il suo aspetto severo come di una vecchia quercia che aveva resistito a molti temporali. Anche il suo nome aveva qualcosa di arcaico: si chiamava Abbondio. Raramente l'ho visto sorridere. Parlava poco. Se c'erano discussioni in famiglia, bastava un suo sguardo per fare zittire tutti, quando per lui quelle discussioni non avevano ragione di essere.

Lo ricordo quando si trascorrevano le lunghe serate d'inverno al caldo nella stalla e lui, al momento in cui tutti si erano riuniti, mezzo inginocchiato su una sedia di paglia inclinata, teneva il Santo Rosario; mentre le donne continuavano a cucire, i giovani smettevano di giocare a carte e noi bambini si interrompevano i nostri giochi, accompagnando i grandi nella recita del Paternoster e Ave Maria in latino.

Lo ricordo quando guidava il cavallo col calesse alla domenica, fino a Correggio e qualche volta io ebbi l'onore di salirvi: arrivando alla Cantona ci si metteva sulla strada asfaltata che va da Carpi a Correggio ed il rumore metallico che producevano gli zoccoli ferrati del cavallo mi avevano fatto credere, per tanto tempo, che la strada fosse di ferro. Lo ricordo negli ultimi anni della sua vita, quando ormai le forze lo stavano abbandonando a poco a poco, seduto sotto il portico, le mani appoggiate al suo bastone, quasi a controllare che tutti i lavori procedessero regolarmente. E il suo sguardo sereno pareva perdersi nell'infinito nel malinconico crepuscolo della vita. Mi ricordo che era stato lui che aveva dato disposizioni affinché il funerale di mio fratello, morto a 23 anni mentre faceva il militare, venissero i fratini di San Martino, perché diceva che per uno che muore invece di tanti fiori era meglio che ci fosse qualcuno in più a pregare; in quell'occasione a Don Primo, che era da poco parroco di San Biagio, mentre recitava le orazioni funebri benedicendo la bara, era venuto un nodo alla gola e un tremito nella voce e aveva dovuto interrompersi un attimo prima di proseguire.

Ma tutti i ricordi del nonno fanno capo a quell'immagine di un grande vecchio che si arrampicava fino in cima ad una scala di legno traballante, appoggiata ad un muro rovente, portando secchi d'acqua da gettare sul muro e sulle travi della casa, lambito dalle fiamme che si alzavano violente dalla paglia che bruciava a pochi metri.

Il vecchio patriarca ancora una volta aveva condotto una battaglia per la sua famiglia e aveva salvato l'arca. Dopo l'incendio fu presto rifatto il tetto della barchessa e in quell'anno si dovette comperare paglia e fieno per l'inverno. Poi per anni ed anni ancora la barchessa avrebbe continuato ad accogliere, nel periodo della mietitura, i covoni del grano che la riempivano fino al tetto; finché non giungeva il giorno della trebbiatura, quando in quello spazio tra la barchessa e la casa e oltre si allineava un lungo treno di macchinari: ad un'estremità un grande trattore nero (il bufalo) che, mediante una puleggia ed una lunga cinghia di cuoio metteva in moto gli altri macchinari dalla trebbiatrice al centro, alla pressa all'estremità opposta da dove uscivano le balle di paglia, che nuovamente sarebbero state accumulate nella barchessa.

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